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Quatre-mains

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VOTO: 7.5

Le vite parallele

Nel 1949 ovvero in un clima post-bellico ancora piuttosto pesante lo scrittore francese Léo Malet, considerato tra gli artefici di un genere come il polar, diede al secondo romanzo della sua “trilogia nera” un titolo alquanto emblematico: “Le soleil n’est pas pour nous” (“Il sole non è per noi”). L’eco di tale lettura, magnifica per quanto raggelante, ci ha raggiunto allorché Simon Gronowski, uno dei due protagonisti dell’intensissimo Quatre-mains, si sofferma su una frase pronunciata dalla sorella maggiore alla conclusione del drammatico inverno 42-43, durante un tiepido risveglio primaverile: “C’è il sole oggi. Ma non è per noi“. Tragiche assonanze, insomma. Considerando poi che tanto la sorella di Simon che la loro stessa madre, deportate di lì a poco, non sarebbero tornate vive dai campi di sterminio nazisti…

Con Quatre-mains del belga Lander Haverals, visionato nella prima giornata dell’Ecu Film Festival 2021, siamo perciò nell’ambito di un cinema della memoria dall’impronta sobria, rigorosa, ma al contempo emotivamente carica. Densa. Come densi sono i racconti dei due anziani, i cui volti vengono scrutati dalla macchina da presa in un ambiente scarno, minimalista, dominato dalla presenza di un pianoforte. Una sorta di scenografia polverosa pronta a istradare lo spettatore attraverso le “ceneri del tempo”, complice la consona e raffinata fotografia dalle tonalità seppiate. Come accennavamo prima, il valore testimoniale del film è affidato innanzitutto a Simon Gronowski, classe 1931, figlio superstite di un piccolo nucleo famigliare scappato anni prima dai pogrom polacchi, per vivere poi in Belgio le tristi esperienze legate all’occupazione tedesca, alla delazione di alcuni vicini e al conseguente internamento in baracche, nell’attesa di una deportazione che solo per il piccolo Simon, grazie alla rocambolesca fuga da un treno in corsa, non avrà esito fatale. Ad alternarsi con lui in scena e a completare l’assetto delle “vite parallele” il quasi coetaneo Koenraad Tinel, belga classe 1934, appartenente a una di quelle famiglie Fiamminghe che, complice l’indottrinamento allora imperante, accettò serenamente la presenza germanica sul territorio: tanto serenamente, che il padre fu un collaborazionista fino alla fine, mentre due suoi fratelli e anche qualche cugino arrivarono addirittura ad arruolarsi nei reparti delle Waffen SS; col fratello più grande coinvolto poi nella disastrosa campagna di Russia, dalla quale tornerà prigioniero degli Alleati e con una gamba di meno.

La voce rotta dall’emozione di Koenraad ci riporta però ai germi dell’aurorale presa di coscienza che s’affacciò in lui, da bambino, di fronte all’orrore dei bombardamenti o di altri funesti eventi bellici e alla contemporanea incapacità del padre di ammettere certi errori, persino a guerra conclusa. Lucido campo e controcampo di due sopravvissuti all’Europa in fiamme di quei terribili anni, Quatre-mains ci conduce per gradi, come è il titolo stesso a suggerirci, a una meravigliosa epifania: i vecchi Koenraad e Simon in realtà si conoscono da tempo, sono diventati amici dopo la guerra, sono accomunati dalla passione per la musica e suonano anche insieme. A quattro mani. Proseguendo quindi quel tenero abbraccio alla fine delle riprese, direttamente sui tasti del pianoforte: un piano accarezzato fino a quel momento, delizioso pure qui il “montaggio alternato” sui cui è costruito l’intero documentario, da ciascuno di loro singolarmente. Soli, del resto, lo erano stati di fronte ai differenti drammi vissuti in famiglia, per ritrovarsi poi uniti nel ricordo e nella volontà di lasciarsi alle spalle tutto quel Male.

Stefano Coccia

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