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Qualcosa di buono

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VOTO: 6

Tra donne

Anche facendo finta di ignorare che Qualcosa di buono è tratto da un romanzo di Michelle Wildgen nonché diretto da quel George C. Wolfe già autore dello scult assoluto Come un uragano, premesse e incipit parrebbero lasciare lo spettatore non avvezzo a melodrammi strappalacrime privo di qualsiasi speranza. Titoli di testa su doccia erotica tra mogliettina (Hilary Swank) e maritino (Josh Duhamel) al termine della quale lui porge a lei la fatidica domanda: “Prometti di eccitarmi così fino a settant’anni?“. Lei annuisce. Poche sequenze dopo – il tempo cinematografico è però sempre refrattario ad una quantificazione canonica – la bella Kate, pianista di professione, mostra i primi sintomi della sclerosi laterale amiotrofica, terribile malattia degenerativa cerebrale meglio conosciuta, anche in Italia, come S.L.A. o morbo di Lou Gehrig, dal nome del campione di baseball che ne fu colpito nella prima metà del Novecento.
L’impressione di essere costretti a sorbirsi la solita minestra a suon di stereotipi è dunque forte, peraltro corroborata da molti degli eventi a seguire. Il calvario della povera Kate da seguire passo dopo passo, marito che sembra devoto alla compagna di vita malata ma in realtà si trastulla con la collega bonazza, amiche ipocrite che si defilano e pontificano senza sosta, madre degenere che scompare nel nulla salvo poi ricomparire alla fine del film pretendendo di dettar legge sulle ultime sorti della sfortunata figlia. E molto altro, che ci asteniamo dall’elencare per non aggiungere tedio nei confronti di chi legge. L’unica eccezione, comunque di una certa consistenza, è costituita dall’ingresso in scena della giovane Bec (Emmy Rossum), disordinata e scapestrata, che si propone di accudire Kate senza aver avuto la minima esperienza nel settore. Inutile sottolineare come, tra le due, nasca un’amicizia oltremodo profonda, tesa a rappresentare il cuore pulsante del film sia nel bene che nel male.
Se in Qualcosa di buono (titolo italiano semplificativo del più riflessivo You’re Not You) gli autori avessero eliminato a monte tutti i fastidiosi orpelli che lo affliggono, concentrandosi esclusivamente sul tema della solidarietà femminile in momenti assai difficili, sarebbe diventata impresa ardua non definirlo un film, almeno parzialmente, riuscito. Tra i due personaggi infatti – grazie alle relative interpreti, molto convinte nei rispettivi ruoli – scatta, per quei misteri che talvolta accadono, quell’indecifrabile alchimia che sovente attira gli opposti. La razionale e ordinata Kate impara dalla ragazza l’arte di gettarsi senza rete protettiva nella vita; mentre Bec apprende dalla sua amica e datrice di lavoro che una percentuale di buonsenso è necessaria a non ripetere all’infinito gli stessi errori. Astenendosi quindi dal concedere troppa importanza ad un plot prevedibile dalla prima all’ultima inquadratura, Qualcosa di buono funziona come sorta di “romanzo di formazione” speculare tra chi è agli albori della propria esistenza e chi invece ne ha imboccato la parabola finale, mantenendo comunque il comune denominatore di un’iniziazione verso una vita differente da quella vissuta in precedenza. Tirando le somme risultano discretamente toccanti i momenti più intimi in cui i due personaggi principali femminili interagiscono tra loro, mentre irritano senza possibilità di redenzione quelli in cui il film descrive le ipocrisie assortite degli ambienti di provenienza delle due, incappando in un didascalismo eccessivamente palese e perciò indigeribile.
Nonostante gli evidenti limiti dell’operazione, Qualcosa di buono riesce comunque ad offrire al suo pubblico di riferimento – soprattutto femminile, pensiamo – un positivo messaggio di emancipazione ed un invito, stavolta “universale”, ad essere se stessi facendo tesoro delle esperienze di un’esistenza che può risultare tanto densa quanto purtroppo effimera, ogni qual volta si compie lo sforzo di guardarsi indietro.

Daniele De Angelis

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