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Premonitions

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VOTO: 6.5

Il terzo occhio

Film di genere come Premonitions dovrebbero fornire a chi scrive di cinema spunti per un saggio, piuttosto che una “normale” recensione. E questo non per particolari meriti artistici, anzi; quanto invece per la capacita intrinseca di tali opere di fornire un quadro più o meno definito su cosa sia divenuto il cinema al giorno d’oggi, a ventunesimo secolo ormai inoltrato.
Come si evince abbastanza chiaramente da titolo e cast, Premonitions è un thriller che introduce quasi immediatamente, nella classica ed un filino abusata struttura “F.B.I. versus serial killer” (sia pur poco convenzionale…) un elemento di novità come il paranormale. Presto abbandonate, dal punto di vista narrativo, percorsi maggiormente battuti, Premonitions diviene nella seconda parte una sorta di duello a colpi di precognizioni tra due sensitivi in grado di “vedere” con chiarezza il passato e il futuro delle persone con cui vengono a contatto. Trattandosi per l’appunto di thriller diviene deleterio aggiungere altri particolari ad una trama comunque interessante, che ha il coraggio di porre sul tappeto tematiche pregnanti quali l’eutanasia e, di conseguenza, l’interrogarsi sul diritto dell’uomo di interrompere l’esistenza altrui, sia pur minata da malattia e conseguente sofferenza. Anche se tali argomenti vengono ovviamente adattati alle esigenze del genere di riferimento. E tuttavia il cuore pulsante di PremonitionsSolace, cioè conforto, nella versione originale: un titolo che già racconta molto degli sviluppi del film – risiede nella regia, nelle scelte di messa in quadro operate da Afonso Poyart, giovane cineasta brasiliano classe 1979. Le quali, per tornare al discorso introduttivo, raccontano molto su cosa è e potrà diventare il cinema negli anni a venire. In Premonitions l’effetto patchwork è talmente esibito da travalicare il concetto di citazione cinefila per farsi stile a sé stante, operante secondo regole del tutto autonome. In tutta evidenza le visioni precognitive del protagonista Anthony Hopkins assumono un significato esattamente sovrapponibile al terzo occhio di una regia “impazzita”, sia pur con lucidità e metodo, che mescola con totale disinvoltura e spregio del pericolo – di saturazione visiva – un’estetica che transita dal videoclip sino all’impressionismo pittorico, attraversando al galoppo secoli e secoli di cultura visuale a mo’ di pendolo in continuo movimento. Il principale effetto negativo di tali scelte è quello di un decentramento di attenzione dal contenuto, come già sottolineato di una certa rilevanza, alla pura immagine, quasi si trattasse di osservare uno splendido corpo privato della propria anima. A quel punto anche i personaggi tendono a divenire pedine di un video-esperimento ludico iniziato sotto ben altri auspici: la percezione tattile di sofferenza – così magnificamente rappresentata in un film affine come La zona morta (1983) di David Cronenberg – si tramuta in un sofisticato ma in parte sterile girotondo mentale, in tutto e per tutto piegato alle esigenze specifiche del contesto narrativo. Mentre il John Clancy interpretato da Anthony Hopkins si rifugia nella sopraffina abilità di un attore peraltro ormai indelebilmente segnato dalla figura di Hannibal Lecter, a patirne maggiormente è il serial killer “filantropico” di Colin Farrell, meritevole di differente e approfondito trattamento rispetto a quello di super-eroe tanto negativo quanto, in fondo, bidimensionale che risalta dalla visione di Premonitions.
Lo spettatore potrà comunque divertirsi a catturare i molteplici riferimenti ad opere e autori quali, giusto per cintarne alcune/i Il silenzio degli innocenti, Seven e Collateral, a loro volta coerentemente dirette da Jonathan Demme, David Fincher e Michael Mann. Nonché ad intrattenersi con maggiore o minor successo – de gustibus… – grazie ad un film in grado comunque di adempiere ai propri doveri basilari. Tutto il resto rientra nella annosa questione se sia ancora possibile realizzare un cinema di genere non ancora visto. A dar retta a Premonitions si sarebbe tentati di rispondere negativamente senza se né ma: la stordente moltiplicazione infinita, sia di sguardi che di sviluppi narrativi, sembra essere considerata l’unica soluzione attendibile a questo tipo di istanza.

Daniele De Angelis

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