La storia di un orologio illuminante
Il Pratomagno che dà il titolo al documentario in questione è una montagna nel cuore dell’Italia. Qui Alberto e Sulayman vivono un’amicizia speciale. Alberto è un bambino nato tra i pascoli di questa terra amena, Sulayman un giovane pastore arrivato per mare dal Gambia. Lontani dalla frenesia della valle, i due vivono in quiete e in simbiosi con la terra e con gli animali, finché un oscuro presagio si affaccia all’orizzonte, preannunciando una frattura. Dopo molti anni, Alberto decide di tornare in Pratomagno, nei luoghi della sua infanzia. Non è rimasto nessuno, solo i suoi ricordi e una pioggia torrenziale, quasi eterna, dentro la quale ogni cosa sprofonda. E noi sprofonderemo o rinasceremo?
Alla domanda al termine dei titoli di coda di Pratomagno non verrà data alcuna risposta, perché a conti fatti non c’è o meglio non sono gli autori a volerla dare, lasciando allo spettatore di turno il compito di cercarla, inseguirla o in ultima istanza a ipotizzarla. Del resto, chi fa cinema le risposte non è tenuto a darle, semmai è chiamato a fornire al fruitore ulteriori quesiti o spunti di riflessione. Ed è quanto il duo formato da Gianfranco Bonadies e Paolo Martino hanno e sono riusciti a fare con il loro documentario breve, presentato nel fuori concorso della quinta edizione di Visioni dal Mondo. Attraverso la storia di Alberto e Sulayman, gli autori hanno affrontato temi universali e di stretta attualità e lo hanno fatto a proprio modo, con uno sguardo dall’alto o da più vicino, ma comunque da narratori puri. Si parla di migrazione, accoglienza e integrazione, oltre che del desiderio di tornare laddove si è nati e da dove si è dovuti fuggire per cause di forza maggiore, ma anche di legami affettivi non biologici e di un’amicizia che per molti potrebbe sembrare speciale e anomala, quando al contrario dovrebbe essere nell’ordine naturale delle cose.
Di tutto ciò si parla con onestà e sincerità di intenti, passando attraverso un modus operandi non nuovo, ma comunque funzionale ed efficace al tipo di narrazione che i due registi hanno deciso di portare sullo schermo. A Martino il compito di restare attaccato al reale con l’osservazione e non interviste frontali per mostrare quello che è stato il presente, mentre a Bonadies quello di andare oltre il reale stesso entrando nella sfera immaginifica e onirica per restituire quello che è stato e quello che sarà. Un cortocircuito spazio-temporale che prende vita grazie alla perfetta e armoniosa fusione tra cinema del reale e animazione. Non è la prima volta che questi due linguaggi si incontrano in maniera così efficace (vedi La strada dei Samouni), e probabilmente non sarà nemmeno l’ultima, ma qui l’interscambio e la fusione equilibrata tra talenti, sguardi, approcci, poetiche e sensibilità differenti generano un’opera composta da inserti animati dal forte impatto visivo ed evocativo, impiantati nel corpus documentaristico come frammenti di flashback e flash forward di memorie riportate a galla o proiettate verso il futuro. Il tutto arricchito e supportato da un lavoro di ricerca e cura dell’immagine e di sound design.
Francesco Del Grosso