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Port of Call

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VOTO: 7.5

Amplesso letale

La polizia fa irruzione in un appartamento alla periferia di Hong Kong dove in seguito a una segnalazione dovrebbe trovarsi il cadavere di una giovane prostituta. Del corpo, però, non c’è alcuna traccia, ma solo un numero imprecisato di macchie ematiche presenti su tutte le pareti e i pavimenti delle stanze. Che fine ha fatto il cadavere? Sulla risposta a questa solo apparentemente facile domanda Philip Yung costruisce la sua terza fatica dietro la macchina da presa dal titolo Port of Call, presentata in anteprima internazionale alla 17esima edizione del Far East Film Festival.
Il regista hongkonghese decide di andare pericolosamente controcorrente, scegliendo di sviluppare il plot sulle fondamenta di un unico quesito, ma il risultato, come avremo modo di vedere, gli darà ampiamente ragione. Dunque, abbiamo il dove e il quando, ma anche il colpevole e il perché. Il tutto dopo una manciata di scene. Fatto, questo, abbastanza anomalo per un serial thriller, il più delle volte incentrato sulla caccia al folle omicida di turno da parte dell’arcigno investigatore chiamato a indagare sulle sue malefatte. Ci troviamo, quindi, a fare i conti con una storia che ha già esaurito dopo pochissime battute la classica linea mistery, con il killer che si è consegnato subito alle autorità. In tal senso, il Seven di David Fincher ha ampiamente dimostrato che il baricentro drammaturgico può essere focalizzato su altro e tenere comunque lo spettatore incollato alla poltrona. Yung sceglie il medesimo modus operandi del più celebre collega statunitense, ma con la differenza di usare come base di partenza un fatto realmente accaduto nel 2008 che all’epoca scatenò una campagna mediatica non indifferente. Il caso in questione riguardava l’omicidio di una sedicenne di nome Wong Ka-mui, una ragazza che si era trasferita in quel di Hong Kong dalla Cina continentale, strangolata mentre forniva prestazioni sessuali e il cui corpo non è stato mai ritrovato perché il carnefice lo aveva smembrato, disseminando le varie componenti in giro per la città.
Nonostante vi siano delle fondamenta di cronaca vera sulle quali lavorare, il regista ne prende in prestito però solo alcune dinamiche, modificando particolari del caso, date e soprattutto nomi, con la vittima che diventa Wang Jiamei, il killer Ting Tsz-chung e l’ispettore Chong. Con questi presupposti, Yung mette in piedi la restante parte del racconto che, diversamente dalla media dei film iscritti nel suddetto filone, punta a uno studio quasi antropologico prima che criminale delle figure coinvolte e dei fattori sociali in gioco. Alla fine avremo degli identikit ben definiti delle pedine in campo, che permetterà al fruitore di conoscere non solo gli effetti, ma soprattutto le cause scatenanti delle loro azioni. L’architettura messa in piedi per supportare tale approccio alla materia passa attraverso una narrazione frammentata e non cronologicamente lineare riversata in quattro atti che consistono in altrettanti capitoli. Il risultato è un mosaico temporale a incastro composto da jump cut che spostano continuamente l’azione tra il presente e il passato. Quando tutti i tasselli avranno trovato la giusta collocazione, solo allora potremo avere la perfetta quadratura del cerchio.
L’ingranaggio nel complesso funziona e conferisce alla storia un ulteriore motivo d’interesse, ma il ritmo eccessivamente dilatato e alcune futili digressioni frenano le potenzialità dell’operazione. Il cineasta hongkonghese non risparmia nulla allo spettatore, a cominciare dai dettagli macabri delle mutilazioni per finire con le sequenze di sesso esplicito, motivi per cui Port of Call si è guadagnato il divieto per i minori di diciotto anni. Yung è bravo a mescolare suggestioni (vedi l’incubo di Chong), atmosfere ansiogene e toni, creando un incrocio atipico tra efferatezza e malinconia, con personaggi dolenti afflitti da una disperazione e da una frustrazione latenti che sfociano in rabbia o in follia omicida. Il lavoro dietro e davanti la macchina da presa, così come la fotografia desaturata di Christopher Doyle, danno spessore e qualità al tutto, consegnando alla platea un film che riesce a lasciare un segno tangibile del suo passaggio sullo schermo.

Francesco Del Grosso

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