Perché l’avvocato è colto da follia improvvisa?
Se, spesso e volentieri, la corrente cinematografica della New Wave greca ha avuto modo di dividere pubblico e critica come raramente è successo in passato, bisogna riconoscere che, a partire dal suo esponente principale – Yorgos Lanthimos – di fianco a prodotti furbi e poco convincenti, vi sono anche opere cinematografiche notevoli che, anche a distanza di anni, hanno, a loro modo, ispirato numerosi altri cineasti nel mondo. Capitanati, dunque, proprio dallo stesso Lanthimos, sono numerosi, oggi, i registi che dalla Grecia hanno avuto modo di farsi conoscere in tutto il mondo. Tra gli ultimi nomi saliti alle luci della ribalta, ad esempio, troviamo Babis Makridis, autore, nel 2012, dell’apprezzato L e che, come opera seconda, ha realizzato Pity (nella titolazione ialiana Miserere), presentato in concorso Torino 36 alla trentaseiesima edizione del Torino Film Festival.
Con una sceneggiatura firmata Efthimis Filippou (che già in passato ha lavorato per lo stesso Lanthimos), questo piccolo e singolare lungometraggio ci racconta le vicende di un uomo appartenente all’alta borghesia, l’Avvocato (un ottimo Yannis Drakopoulos), il quale, in pena per la moglie in coma a causa di un incidente, riceve da tutti – amici e parenti – ogni giorno frasi di commiserazione e atti di gentilezza (tra cui, ad esempio, un’ottima torta all’arancia da parte di una vicina di casa). Nel momento in cui sua moglie finalmente si sveglia e torna a casa, però, l’uomo stranamente non si sentirà sollevato, ma, al contrario, sentirà la mancanza di quelle attenzioni che lo avevano accompagnato nei momenti precedenti, al punto da entrare in una profonda crisi esistenziale.
Quello che il regista ha voluto mettere in scena è la storia di un singolo che, in realtà, potrebbe essere la storia di chiunque (non a caso a nessuno dei personaggi viene dato un nome proprio) e ciò su di cui vuol focalizzarsi è principalmente la mente umana e tutti i contorti percorsi che può fare. Il tutto, ovviamente, con un umorismo nero, che più nero non si può. Proprio come piace ai registi della suddetta New Wave e che, a tratti, ricorda anche, per certi versi, la comicità scandinava. E, a tal proposito, è proprio il cinema nordeuropeo a saltare alla mente, nel momento in cui vediamo composizioni del quadro perfettamente simmetriche, colori dai toni freddi, un imponente commento musicale firmato Mozart e Beethoven e, non per ultimi, personaggi rigidi, dai movimenti eccessivamente impostati, quasi statici, intenti a recitare secondo i canoni dello straniamento brechtiano. Volendo essere più precisi, la presente opera sembra quasi rappresentare una sorta di crasi tra la suddetta cinematografia scandinava e il primo Yorgos Lanthimos (prima, ovviamente, che l’autore venisse chiamato a Hollywood). Mix interessante? Indubbiamente. Eppure, malgrado gli spunti accattivanti e i numerosi pregi, questa opera seconda di Babis Makridis proprio senza macchia non è. Al contrario, man mano che ci si avvicina al finale – e prima del tanto sofferto climax – vi sono non poche forzature proprio a livello di sceneggiatura, dovute – com’è naturale che sia – alla difficoltà di gestire una situazione tanto potente quanto ai limiti del surreale. Sta al carisma dell’attore protagonista e a interessanti risvolti dello script far sì che tali mancanze possano essere generosamente perdonate.
Marina Pavido