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Pitch Perfect 2

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VOTO: 6

Tutte insieme appassionatamente

Tornano le Barden Bellas, per la gioia di tutti i fans del canto a cappella. Se comunque ignorate chi siano le Barden Bellas non c’è da preoccuparsi, visto che il primo Pitch Perfect è passato da noi abbastanza sotto silenzio, per giunta con il titolo cambiato in Voices. A colmare la lacuna per la platea italiana arriva dunque, a distanza di tre anni, l’inevitabile sequel, fresco reduce da fragorosi incassi al botteghino americano. E, vedendolo, se ne comprendono i motivi. Gli ingredienti per il successo commerciale sono, in fondo, sempre gli stessi: la simpatia di personaggi giovani e con qualche sogno da realizzare, la voglia di riscatto e qualche riflessione sparsa qua e là sulla vita vera che pian piano si affaccia nell’invidiata, spensierata gioventù. Poi tante canzoni e qualche battuta o situazione irriverente a fare da eco a quei magnifici anni ottanta rimasti ancora nel cuore dei cinefili con la carta d’identità che corre verso la mezza età. Ma chi diavolo sono – domanda più che legittima, a questo punto – le Barden Bellas? Risposta pronta: le campionesse universitarie – ambito in cui la competizione, negli States, impera ad ogni livello possibile e immaginabile – di canto a cappella. E cosa sarà mai il canto cosiddetto “a cappella”? L’esecuzione di brani privi di qualsiasi accompagnamento strumentale. Solo voci, e basta. Tutto sufficiente a gasare oltremisura la platea a stelle e strisce, evidentemente desiderosa di immedesimarsi nelle amene vicende di queste eroine al femminile.
L’incipit di Pitch Perfect 2 è comunque piuttosto effervescente. Durante un’esibizione davanti agli occhi del Presidente Obama e della first lady si verifica un imbarazzante incidente che mette al bando le ragazze dalla possibilità di esibirsi ancora sul territorio nazionale. Gli resta solo la chance, per riscattarsi, di vincere i campionati del mondo previsti a Copenaghen, dove dovranno fronteggiare una temibile band tedesca, autentica nemesi per le nostre fanciulle. La non sempre ispiratissima sceneggiatura si esime dal tratteggiare, come avrebbe potuto, un ritratto post-femminista dei nostri tempi, preferendo ripiegare su una goliardia comunque efficace, incarnata principalmente dal personaggio di Fat Amy (impersonato dalla voluminosa attrice australiana Rebel Wilson), sorta di elemento di rottura delle convenzioni alla stregua di un John Belushi in Animal House. Fatte ovviamente le debite proporzioni. Mentre la regia di Elizabeth Banks – la quale nel film si ritaglia il ruolo di una podcaster dai duetti irresistibili e cattivelli con il proprio partner John Michael Higgins – segue con un certo brio sia le disavventure della band che il tentativo delle singole ragazze di combinare qualcosa nella vita reale oltre il palcoscenico. E probabilmente la sincerità di un giocattolino musicale come Pitch Perfect 2 si annida proprio lì, dove meno lo si sarebbe aspettato: nel tracciare un confine più o meno netto tra lo star system e ciò che accade – amore, rapporti interpersonali, soddisfazioni e delusioni professionali – nel privato di ognuna delle protagoniste, quello con cui è necessario fare quotidianamente i conti mentre il tempo passa. Perché alla fine Pitch Perfect 2, con il suo finale tanto prevedibile quanto “catartico”, fa capire nemmeno troppo tra le righe che la spensieratezza della gioventù rappresenta un periodo assai breve dell’esistenza e fortunati sono coloro che riescono a definirne con chiarezza le fasi di passaggio verso l’età matura. Un viaggio temporale ben simboleggiato dal personaggio di Beca (Anna Kendrick), matricola incerta nel primo film ed ora pronta a spiccare il gran salto verso la propria realizzazione da adulta. Parlare di compiuto racconto di formazione e consapevolezza, a proposito di Pitch Perfect 2, è forse, anzi sicuramente, eccessivo; resta però insindacabile il fatto che pure il canto a cappella, al pari di tutte le altre faccende di questo mondo, debba giocoforza conoscere l’inevitabile ciclicità del vivere. Un momento di gloria e via, passaggio di testimone ad un’altra generazione. Anche se raccogliere una qualsiasi eredità può essere una questione dal peso simbolico tutt’altro che irrilevante. Soprattutto oggi.

Daniele De Angelis

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