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Ping Pong

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VOTO: 8

Once Upon a Time in Chinatown

Già in bilico tra diverse linee temporali. Prima ancora che la serata inaugurale al Teatro Nuovo Giovanni da Udine ci facesse scoprire le prime opere in concorso, ossia produzioni asiatiche più recenti, il 25° Far East Film Festival (cifra che rappresenta senz’altro un traguardo importante) ci aveva già regalato un emozionante tuffo nel passato di Hong Kong e del suo cinema, attraverso l’omaggio a Po-Chih Leong. L’evento di natura retrospettiva a lui dedicato ha avuto infatti inizio con la proiezione pomeridiana di Ping Pong, gioiellino datato 1986. Un film, insomma, che ci ha conquistato sia per la regia così personale e gravida di conseguenze sul piano creativo, sia per l’istantanea vivace ma velatamente malinconica di un mondo in rapida transizione.

Ping Pong è ambientato nella Chinatown londinese. Già questo un tratto di originalità non indifferente, all’interno di quella New Wave hongkonghese di cui Po-Chih Leong ha rappresentato una delle voci più interessanti. Il regista, per inciso nato proprio a Northampton nel Regno Unito, ha trovato qui un equilibrio davvero magico tra il proprio estro e la volontà di conferire un’anima profonda alle storie dei tanti cinesi emigrati all’estero. Seppur con un tocco soave che si coglie soprattutto nella (apparente) leggerezza e nell’ironia dei dialoghi.
Motore del racconto è la particolare detection avviata da Elaine (Lucy Sheen), giovane studentessa di legge anglo-cinese divenuta un po’ per caso (ma si è soliti dire che il caso non esista) l’esecutrice testamentaria di Sam Wong, anziano “patriarca” immigrato a Londra dalla Cina parecchie decadi prima. La morte improvvisa dell’uomo è la miccia che accende la ricerca, volta ad assicurare il dovuto a parenti stretti, altri famigliari, partner lavorativi, amici e persino amanti.

Ciò che ne deriva è il caleidoscopico viaggio all’interno di una comunità frammentata, dalle mille anime, in cui il concetto stesso di “patria” viene ridefinito più volte. Facendo peraltro ricorso ad assai diversificate forme dell’immaginario: qualche tributo affettuoso agli immaginifici set del Wuxia, il complesso ma importantissimo rapporto tra genitori e figli nella cultura cinese,  le relazioni non sempre facili con la società britannica, il cibo stesso quale elemento fondante della Tradizione, l’onda lunga di una “Swinging London” di cui si percepiscono ancora tracce nei gaudenti “Eighties” londinesi, non ultimo quel clima di incertezza e di sospensione percepibile spesso nel cinema di Hong Kong realizzato durante tale decennio. Anche qualora la storia sia ambientata così lontano “da casa”. E non è certo casuale che uno dei momenti più brillanti, pure sul piano satirico, sia rappresentato dalla visita della protagonista all’ambasciata cinese. Con tanto di imbarazzante equivoco riguardante Mao e il Principe Carlo!

Stratificato, allegorico, a tratti meditabondo, ma anche godibilissimo sia nelle sue uscite più commoventi che nei tratti da agro-dolce commedia sul mondo dell’immigrazione asiatica in Gran Bretagna: una riscoperta essenziale, questo virtuale “tavolo da ping pong” su cui Po-Chih Leong muove con arguzia i suoi personaggi, facendoli così ribattere, in un lungo susseguirsi di eleganti carrellate, dettagli rivelatori e scambi di battute al fulmicotone, alla loro condizione esistenziale in bilico tra più mondi.

Stefano Coccia

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