Cento anni. Ed oggi?
Un presente alternativo. Una delle tante distopie che l’immaginazione è in grado di partorire. A maggior ragione quando la situazione attuale è intrisa di mediocrità e pretende una possibilità di evasione. In questo periodo temporale di finzione un giovane Pasolini si affaccia nella desolata (e desolante) realtà culturale italiana. Come verrebbe accolto il suo pensiero? Tralasciando qualsiasi discorso sulle proprie attitudini sessuali – ora più di allora probabilmente oggetto di virulenti attacchi socio-politici – il suo destino sembrerebbe segnato: l’emarginazione. Sui social, dopo dibattiti accesi, non verrebbero perdonate le sue “provocazioni” intellettuali. Il rumore di fondo, dettato dall’apparenza a tutti i costi e dal gossip, oscurerebbe la sua lucidità di pensiero.
Pier Paolo Pasolini aveva ancora una volta visto giusto: troppe voci urlanti creano un rumore indistinguibile. In cui ogni singola voce, non importa se assennata o meno a questo punto, è destinata ad infrangersi contro un muro invisibile fatto di nulla. Una sorta di dittatura ultrademocratica, dalle derive tuttora non prevedibili. Pier Paolo Pasolini sarebbe messo in un angolo. Lui che ha osservato la società del suo tempo nei minimi particolari, giungendo alla fatidica conclusione che nessuna possibile speranza si sarebbe parata all’orizzonte. Solo ora, scomparso da troppo tempo, ci accorgiamo di quanto avesse ragione. Ora che non può più dare fastidio, cento anni dopo la sua nascita.
Pier Paolo Pasolini guardava la realtà sociale attraverso la lente d’ingrandimento di una cultura infinita. Aggrediva una classe politica che aveva tutto l’interesse a lasciare il popolo nell’ignoranza. Aumentando così a dismisura la frattura tra esercizio del Potere e spettatori inermi di uno show senza fine. La Democrazia Cristiana di allora. Unico “partito moloch” senza il quale alcun esecutivo non sarebbe stato possibile. Adesso una classe dirigente frastagliata in mille rivoli. Quasi tutti intrisi di inguaribile demagogia nonché incapaci di servire al minimo il cosiddetto bene comune. Pasolini, senza per questo intentare uno sterile processo alle intenzioni, ne sarebbe stato a dir poco inorridito. Del resto è sufficiente ammirare, dato che in questa sede discettiamo di cinema, un capo d’opera come Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), per comprendere dove l’esercizio senza freni di un potere incontrastato è in grado di arrivare. All’annullamento fisico di qualsivoglia voce alternativa. Era ieri, succede oggi. Cambia la metodologia a seconda della collocazione geografica. Tutto ciò mentre una pandemia pluriennale ha messo in ombra, seminando false piste di stampo “complottista”, la vera radice del problema, sagacemente preconizzata dall’autore di “Ragazzi di vita”: una saldatura globale tra poteri economici su larghissima scala. Atta allo smodato arricchimento di pochissimi e condannando all’impotenza della sopravvivenza la cosiddetta maggioranza (sin troppo) silenziosa. Un processo irreversibile in pieno corso ben prima della deflagrazione del covid 19, che il funesto avvento di quest’ultimo ha solo finito per accelerare.
In un ipotetico presente Pasolini sarebbe stato ancora una volta al fianco delle classi “deboli”, in una società dove non ha più molto senso discutere di possibili divisioni tra proletariato e borghesia. Esiste un’architettura piramidale, composta da un vertice ed una base. Certamente, Pasolini non sarebbe stato una sorta di “voce sindacale” capace di emettere sterili rivendicazioni inascoltate, in una società dove è sempre diritto del più forte quello di dettare le regole del gioco. Si sarebbe però fatto cantore – attraverso film, romanzi oppure opere teatrali – dei cambiamenti, delle involuzioni di persone lentamente retrocesse da una vacua definizione di benessere alla povertà assoluta. Sarebbero arrivati, per restare in ambito cinematografico, altri e differenti Accattone (1961) e Mamma Roma (1962). Gente di periferia che non sa più dove guardare, nel cercare non una retorica speranza di futuro migliore ma qualcosa che possa permettere loro di esistere senza venire trattati da intrusi. Manca terribilmente, dunque, una voce che risuoni alta, oltre le soglie sonore del frastuono indistinto che caratterizza il nostro periodo storico. Qualcuno che racconti, senza fronzoli e atteggiamenti di superiorità, la poetica della sopravvivenza in una società sempre più modellata su basi istintivamente animalesche.
Nel corso degli anni trascorsi molti, quasi tutti, hanno provato a ricondurre la figura di Pasolini da questa o l’altra parte politica. Senza comprendere che la forza dell’idea, del libero pensiero, non può e non potrà mai avere una colorazione definita. Tutto, oggi, viene ridimensionato ad una elementare dualità: appoggi quella persona o quell’opinione, quindi sei per forza di cose contro l’altra. Il pericolo che Pasolini aveva intravisto con l’avvento di un progresso tecnologico in rapida e continua evoluzione (al tempo la televisione) era proprio quello di un eccesso di semplificazione che inibisse per sempre la possibilità di un ragionamento articolato. La base di qualsivoglia crescita umana. Ogni sua opera, letteraria o cinematografica, criptica e insieme cristallina, costituiva un invito implicito alla costruzione di un pensiero, al formarsi di un opinione. Ed è proprio questo che tuttora è ritenuto inaccettabile dalle cosiddette élite troppo preoccupate di salvaguardare lo status quo: l’eventualità che ogni essere umano divenga una libera testa pensante in grado di partorire idee ed opinioni scevre da vincoli precostituiti. Una maestosa utopia, lo sappiamo tutti. Eppure, ancora, un sinistro spauracchio per alcuni. Coloro, purtroppo, che detengono le leve di un potere forse fiaccato e tuttavia inesauribile.
Non potendo più esistere, come si sarà certamente compreso, un altro Pasolini, figlio culturale di un tempo ormai irrimediabilmente perduto, l’unico dovere di coloro che abitano questo arido periodo sarebbe in teoria quello di preservarne la memoria. Non attraverso inutili saggi analitici incentrati sulla sua arte nonché inevitabilmente protesi a ribadire l’ovvio quando non al narcisismo più sfrontato degli estensori; bensì diffondendo le sue opere tra le menti giovani, rendendo Pasolini una autentica “materia” di studio. E non a fini celebrativi di una personalità sempre lontana dalle luci della fama; bensì come palestra dell’intelletto, oltre all’arricchimento culturale, attività che al giorno d’oggi pare caduta in disgrazia. E sarebbe interessante studiare le reazioni di una platea “vergine” messa di fronte, ad esempio, alla semplicità sublime ed assoluta de Il vangelo secondo Matteo (1964), per accostarsi ad un modello spirituale capace di riassumere, persino mediante la visione di poche sequenze, l’autentica essenza del cristianesimo. Così distante da un processo di mercificazione costante che riguarda ogni ambito della nostra esistenza. Per scoprire o riscoprire così, anche grazie a tante altre visioni o letture indimenticabili, qualcosa di sopito ma pronto a destarsi all’occorrenza: la necessità di confrontarsi con l’ignoto al fine di (ri)conoscere meglio se stessi. Pier Paolo Pasolini ha dedicato a quest’aspetto, con tutte le asperità del caso, la propria intera e purtroppo non lunga esistenza, terminata brutalmente nel modo che (non) sappiamo. Ora più che mai è arrivato il momento di non vanificare, seppellendolo in un comodo oblio, quello sguardo assieme premonitore ma sempre profondamente umanista. Soprattutto per il suo, logico e comprensibile, pessimismo di fondo. In cui tutti possiamo facilmente specchiarci. E magari ritrovarci.
Daniele De Angelis
Per approfondire:
La sessualità secondo Pier Paolo Pasolini
L’eredità di Pier Paolo Pasolini