Una turgida storia (molto) familiare
Non era affatto facile mantenere la classicità insita nelle pagine del celebre romanzo ottocentesco di Louisa May Alcott e nel contempo rendere moderna una storia letta e vista innumerevoli volte. Solo al cinema possiamo ricordare, tra le altre, le versioni dirette da George Cukor (1933), da annali hollywoodiani; quella datata 1949 di Mervyn Le Roy, altrettanto riuscita da un’ottica glamour. Più recentemente la narrativamente convenzionale trasposizione di Gillian Anderson (1994), abbastanza ingessata e tuttavia nobilitata dalla presenza attoriale di Susan Sarandon, Christian Bale e Winona Ryder. Stavolta è stato il turno di Greta Gerwig, al suo terzo film da regista dopo il poco visto Nights and Weekends (2008) e il sin troppo osannato Lady Bird (2017), cimentarsi con Piccole donne ed uscirne ampiamente vincitrice.
Abbandonati i fastidiosi orpelli tipicamente indie del menzionato – e sopravvalutato – Lady Bird, la Gerwig ha operato la scelta più rischiosa, almeno sulla carta: frammentare il racconto su più livelli di temporali allo scopo di coinvolgere in misura ancora maggiore lo spettatore nell’evoluzione dei personaggi. Obiettivo filologico – ricordiamo che la Alcott scrisse “Piccole donne” originariamente in due versioni, una con le protagoniste adolescenti e l’altra più adulte. Poi i due testi furono accorpati… – perfettamente riuscito, nonostante gli andirivieni temporali potrebbero in qualche modo spiazzare un pubblico poco aduso a questo tipo di narrazione. Ma quando un potenziale difetto diviene un pregio, allora significa semplicemente che l’autrice conosce il fatto suo, dimostrando intelligenza nella messa in scena sin qui espressa solo sporadicamente in carriera. Tralasciando un impianto formale del tutto degno dei grandi film in ogni possibile comparto tecnico (dalla mirabile fotografia di Yorick Le Saux, fedelissimo di Olivier Assayas ma non solo, fino alle musiche di Alexander Desplat) c’è da sottolineare anche una notevole capacità nella direzione del cast da parte della Gerwig. L’ottima Saoirse Ronan non si limita semplicemente ad imitare la gestualità della Gerwig attrice come accaduto in Lady Bird ma brilla di luce propria nello sfaccettato ruolo di Josephine detta Jo, la giovane maggiormente desiderosa di emancipazione della famiglia. Accanto a lei la bravissima Florence Pugh, appena ammirata nel recente Midsommar di Ari Aster, sorella e antagonista “sotterranea”; mentre Laura Dern nella parte della madre dispensa dolcezze e saggezza in egual dosaggio, in uno dei ruoli maggiormente pregnanti della propria carriera. E, ciliegina sulla torta, Meryl Streep nella parte, limitata ma incisiva, dell’anziana zia bisbetica, ruolo per cui l’attrice ormai veterana appare destinata dalla nascita.
Sarebbe stato facile, dunque, per Greta Gerwig (classe 1983) realizzare un’opera femminista ante litteram ai tempi di #metoo. Scagliarsi cioè senza riserve contro lo spirito conservatore e maschilista insito nella società americana borghese dell’epoca, senza modulare i toni ma portando al punto estremo la propria, possibile, invettiva. Al contrario, non solo quest’aspetto resta prodigiosamente inserito tra le righe di un discorso universale ben più articolato e complesso sul posto che ognuno deve conquistarsi nella vita, ora come allora; ma il lungometraggio della Gerwig, nell’epilogo, compie un ulteriore salto di qualità, intavolando con chi guarda un sofisticato dialogo su ciò che si è visto sino a quel punto. Vita vissuta o romanzo di pura finzione la cui chiosa dipende dall’artista (Jo, nella narrazione del film) che ne scrive il testo? Ecco allora che proprio la figura di Josephine diviene duplice catalizzatrice, nonché alter ego, sia della Alcott che della Gerwig, riflettendo sul ruolo di narratrice in un modo tale da generare inusitate vertigini cinematografiche nella platea.
Per questi ed altri motivi il Piccole donne diretto dalla Gerwig non pare affatto il classico compitino da prima della classe portato a casa come poteva invece apparire Lady Bird; al contrario – al netto di qualche comprensibile omissione come la questione razziale inerente allo schiavismo, accennata sulla pagina scritta – una rivisitazione del tutto autonoma capace di infondere nuova linfa ad un testo immortale nelle chiavi di lettura “coming of age” che gli appartengono da sempre. Attendiamo perciò la Gerwig con interesse alle prossime prove registiche, poiché in Piccole donne si notano con chiarezza i prodromi di un talento generoso e non narcisista, come invece la visione di Lady Bird poteva lasciar supporre.
Daniele De Angelis