Speak low
La prima, superba sequenza de Il segreto del suo volto (presentato al Festival Internazionale del Film di Roma con il titolo originale di Phoenix) è per certi aspetti la classica dichiarazione di poetica, un precipitato filmico da cui si può dedurre la presenza di determinate ossessioni autoriali e come esse vengano distillate nell’opera. Un’automobile d’epoca e un posto di blocco campeggiano nell’inquadratura. Sulla macchina due donne, una delle quali ha parte del volto coperta da un approssimativo bendaggio, con grumi di sangue a renderne la visione più disturbante. Ma ciò non impedisce che il soldato americano incaricato del controllo le intimi energicamente di scoprirsi il viso, nonostante le rimostranze dell’altra donna al volante, la quale aveva subito motivato le ferite dell’amica, ebrea come lei, con la fuga da un campo di concentramento. Del resto siamo al termine della Seconda Guerra Mondiale, lungo il confine tra la Svizzera e i territori del Reich ormai liberati, per cui c’è gente che non guarda troppo per il sottile: chiunque tenti di passare potrebbe essere, agli occhi dei più zelanti tra le forze d’occupazione alleate, un criminale di guerra tedesco oppure un collaborazionista. Così la donna è costretta, crudelmente, a sciogliersi le bende, ma mentre lo fa la macchina da presa resta puntata sull’espressione dell’arrogante milite americano, che dopo un po’ si tinge di malcelato raccapriccio. Può bastare così. E la macchina riprende il suo cammino verso una Berlino devastata dalla guerra e già ripartita in zone…
I primi vagiti di un’identità ferita, da ricostruire con estrema difficoltà. L’alternarsi sullo schermo di assortite crudeltà psicologiche e di una realtà materiale avvolta nel caos. L’instaurarsi di rapporti incentrati su reciproco controllo e/o morbosa attrazione tra carnefici e vittime. La completa dedizione di una regia attenta, raffinata, classicheggiante, ai risvolti più crepuscolari di una messa in scena esplorata alla continua ricerca di luminosità e ombre, con tagli di luce che espressionisticamente scavano nel profondo di menti turbate e corpi sfiniti. Già dalle primissime scene il film di Christian Petzold, tra i più belli presentati al Festival di Roma, si configura così, come un suggestivo e perturbante melo ambientato tra le rovine di una Berlino post-bellica dai tratti quasi ammalianti, nella sua desolazione fisica e interiore. Il paradossale svilupparsi della narrazione sfida poi lo spettatore ad addentrarsi in un territorio ostico, ai confini di ciò che la sospensione dell’incredulità può reclamare, pur di beneficiare del tormentato rapporto tra due personaggi ritrovatisi in circostanze estreme, spiazzanti, tali da foraggiare un gioco perverso e capace di far emergere, al contempo, la reale natura dei caratteri in esso coinvolti. La donna dal volto sfigurato dovrà infatti accettare una ricostruzione chirurgica, che le restituirà parte dell’antica bellezza ma non le permetterà di tornare esattamente come era prima. Eppure sarà proprio questo, mentre l’amica vorrebbe convincerla ad abbandonare tutto quel degrado per emigrare in Palestina, a consentirle di avvicinare praticamente “in incognito” l’uomo che amava e che però si vocifera l’abbia tradita, sotto il Nazismo, in un modo squallido, orrendo, vigliacco. Verità dissimulate. Apparenze. Sofisticate rielaborazioni del tema del doppio. Agnizioni rimandate a tempo indeterminato. La suspance drammaturgica e interiore che viene a crearsi s’avvicina, nelle sequenze di maggior spessore, a quell’impronta destabilizzante in cui persino il pathos tende a cristallizzarsi. Come in quell’interpretazione finale del brano di Kurt Weill, Speak Low, dove sembrano confluire tutte le tensioni sopite nell’opera.
Alla musa di sempre, l’intensa Nina Hoss (già scelta dall’autore per interpretare pellicole come Yella, Jerichow, La scelta di Barbara), Christian Petzold ha affidato il ruolo della protagonista. E sebbene vi sia persino un’impronta vagamente almodovariana nelle atmosfere, in alcuni risvolti del racconto stesso (cfr. La pelle che abito), ciò che rende felici è come il cineasta tedesco sia tornato a fondere in una forma adeguata e matura le inquietudini, i non banali interrogativi etici, che avevano già caratterizzato la sua primissima produzione. Pensiamo per esempio ai conflitti psicologici dell’ottimo Wolbsurg (2003) o di Gespenter (2005). Mentre alcuni degli esiti più recenti, vedi anche un titolo molto ben accolto da pubblico e critica come La scelta di Barbara, ci avevano lasciato al contrario una persistente impressione di sciatteria, di farraginosità narrativa. Summa ideale del cinema realizzato finora, Phoenix (titolo ispirato al night club berlinese epicentro dell’azione) sembra invece segnare il ritorno a una ricercatezza stilistica, messa sapientemente al servizio dell’emotività turbata dei personaggi. Ed è così che quei lancinanti, soffocati drammi interiori si sono rigenerati sullo schermo, stando all’immagine quasi come una seconda pelle.
Stefano Coccia