Un vero coniglio non scappa
Il salto dal piccolo al grande schermo raramente provoca impennate qualitative. Non costituisce eccezione alla regola Peter Rabbit, opera a tecnica mista tra computer graphic e live action tratta dalla serie televisiva Peter coniglio, trasmessa dal canale statunitense Nickeleodeon nonché personaggio tratto dalla penna della scrittrice britannica Beatrix Potter agli inizi del secolo scorso. Molto popolare negli States (la serie), un po’ meno da noi. Ad ogni modo: posizionato Will Gluck – regista garanzia di decoroso intrattenimento commerciale, vale la pena ricordare almeno il suo Easy Girl del 2010, trampolino di lancio da protagonista per Emma Stone – dietro la macchina da presa, l’operazione è partita, con discrete possibilità di gradimento soprattutto nei confronti di una platea infantile, senza dubbio divertita da varie situazioni comiche nonché visivamente ammaliata dalla buona fluidità dell’interazione tra umani e creature animali riprodotte grazie agli effetti speciali.
Lo spettatore adulto potrebbe lamentare l’assenza di quell’unpolitically correct tipicamente british promesso dal folgorante prologo – uccellini che cantano un mieloso motivetto in stile Disney, subito sbaragliati da un salto del coniglio protagonista – e non mantenuto nel seguito di un lungometraggio che dalle prime battute potrebbe far tornare alla mente un sostrato politico alla Fantastic Mr. Fox (2009) di Wes Anderson, per poi ripiegare su molto meno ambiziose suggestioni. Sembra infatti una lotta senza quartiere tra proletariato animale e capitalismo umano, l’incipit di Peter Rabbit, con conigli e compagnia varia impegnati a depredare, a scopo nutrimento, l’anziano e ricco fattore, a sua volte strenuamente dedito alla protezione del proprio orto negli splendidi panorami della campagna inglese. Si tratta tuttavia di una falsa pista narrativa, che evapora nel momento stesso dell’arrivo del nuovo erede della tenuta (Domhnall Gleeson, a suo agio in un ruolo quasi slapstick da nevrotico metropolitano) trasformandosi in un duello all’ultimo dispetto tra l’umano e gli animali, dagli esiti divertenti molto a corrente alternata. Non manca l’improbabile love story con la bella vicina Rose Byrne (era la madre dei primi due capitoli della saga horror Insidious) a completare un quadro sin troppo all’insegna della prevedibilità narrativa. Eppure, oltre al pregio di una confezione extra-lusso, bisognerebbe menzionare all’attivo almeno la funzione squisitamente pedagogica della figura di Peter, coniglio capace di smentire il luogo comune che lo vede animale sin troppo incline alla ritirata strategica in caso di difficoltà. In Peter Rabbit, al contrario, in un finale letteralmente scoppiettante si dimostra perfettamente in grado di assumersi le proprie responsabilità, riportando un’armonia tra gli umani che pareva definitivamente compromessa, a dispetto di un paesaggio quanto mai idilliaco.
Insomma questo Peter Rabbit, se fallisce nettamente nel non facile tentativo di avvicinarsi allo spessore morale di un cult-movie con animali come Babe, maialino coraggioso (1995), nondimeno qualche utile insegnamento esistenziale ai bambini potrebbe riuscire anche a fornirlo: far comprendere loro che le azioni compiute portano sempre delle conseguenze e che nemmeno i conigli possono scegliere di defilarsi in eterno. A pensarci bene forse una visione sarebbe consigliabile anche a qualche uomo di potere nostrano, sin troppo impegnato – specie nel periodo elettorale – a crogiolarsi nel suo narcisismo per poi dover fare i conti con una realtà differente. Del resto, non sono anch’essi in buona parte rimasti (infelicemente) bambini?
Daniele De Angelis