Un cinema in fuga
Tanto per dissipare subito ogni dubbio: se l’obiettivo a monte della realizzazione di un film come Pericle il nero era quello di confezionare un prodotto di respiro europeo, che ricalcasse certi stilemi cinematografici tipici del noir francese – anche se trattasi di coproduzione peraltro di ambientazione in prevalenza belga, consideriamo il film di prevalente nazionalità italiana… – possiamo affermare che il traguardo è stato raggiunto.
Pericle il nero, tratto dal romanzo omonimo di Giuseppe Ferrandino, è una sorta di pedinamento – l’influenza dei fratelli Dardenne, qui produttori, si nota eccome – del protagonista attraverso l’inferno della società abietta di cui lui fa parte, in cui la redenzione appare alla stregua di un miraggio sfuggente che pare beffardamente allontanarsi ogniqualvolta pare si avvicini. Pericle Scalzone è un trentacinquenne del sud Italia trapiantato in un Belgio quantomai grigio e piovoso, “non luogo” per eccellenza. Lavora per un boss della camorra ed è specializzato nel “fare il culo alla gente”, secondo le sue stesse parole che ci accompagneranno nel corso dell’intero lungometraggio, nel tentativo di riprodurre più o meno fedelmente il monologo interiore che caratterizza il testo di partenza. Per arrotondare le entrate Pericle si prostituisce ad attempati omosessuali, recita in film pornografici e spaccia droga. Sino a quando un fatale errore – uccidere cioè l’anziana sorella di un altro boss – durante un “incarico” neppure particolarmente problematico non fa di lui un uomo in fuga, mentre una scia di sangue ne accompagnerà i passi. Tra le note positive del film di Stefano Mordini c’è la performance interpretativa di un Riccardo Scamarcio benissimo compreso nel ruolo principale, tanto allucinato quanto spietato. Pericle il nero attesta in maniera pressoché definitiva una crescita attoriale magari molto graduale ma sempre costante. Coinvolto anche come produttore Scamarcio diventa un credibilissimo Pericle, naufrago assolutamente partecipe di un mondo alla totale deriva. Un vero peccato, allora, che sia la regia di Mordini che la sceneggiatura opera dello stesso con Francesca Marciano e Valia Santella lavorino semplicemente di pilota automatico, non riuscendo a far scattare in Pericle il nero la scintilla di un realismo autenticamente vitale. Tutto suona alquanto prevedibile in un film che è la palese dimostrazione di come il nostro cinema medio sappia certamente realizzare dignitosi prodotti di ricalco ma tuttavia privi di quel guizzo di originalità che li porrebbe su un differente piano qualitativo. Un cinema in fuga (per paura di volare?) da se stesso e dalla sua tradizione gloriosa di genere, incapace neppure di sfiorare quegli estremi di pathos che un’opera del genere avrebbe richiesto a gran voce, se solamente i film potessero parlare ancor prima di essere girati. Perché alla fine il senso di alienante estraneità di Pericle alla sua stessa vita non riesce a bucare lo schermo, nonostante la narrazione si sovrapponga totalmente al suo sguardo.
Anche in questa circostanza, insomma, Stefano Mordini, fedele alla sua fama di regista dalle alte ambizioni solo teoriche – lo scult Provincia meccanica (2005) e l’irrisolto Acciaio (2012) sono lì a dimostrarlo – perde l’occasione di gettarsi a corpo morto nella metaforica melma di un ambiente degradato dove già l’appartenenza rappresenta una sorta di indelebile marchio d’infamia. E i numerosi momenti drammatici, pur presenti, vengono trattati alla stregua di normali effetti collaterali della fuga di un personaggio dal destino che appare comunque segnato. Medesima sorte finisce per avere pure una parentesi pseudo-sentimentale in territorio francese che avrebbe potuto e dovuto simboleggiare il cuore narrativo del film ed è invece risolta in modo sbrigativo e poco verosimile, con il personaggio di Anastasia (la brava Marina Foïs), commessa di un forno, che prima pare respingere decisamente l’approccio di Pericle mentre al secondo incontro cade di botto preda del suo inquietante fascino. Una maggior introspezione sull’alchimia del loro rapporto avrebbe senz’altro giovato all’economia di un lungometraggio che ha il torto, affatto di poco conto, di non soffermarsi su null’altro che non sia la morale finale di un’esistenza bruciata prima ancora di essere, tanto distrattamente quanto impietosamente, vissuta. Non ci sono grandi o appariscenti difetti in Pericle il nero: niente vezzi e compiacimenti stilistici, nessuna caduta nella classica retorica del loser nel tratteggiare il ritratto di un personaggio a proprio modo maledetto. Solo la medietà di un prodotto che, epurato di quelle tre o quattro sequenze dal contenuto un po’ sopra le righe, potrebbe passare in una qualsiasi seconda serata televisiva senza che nessuno possa poi sorprendersi più di tanto.
Il cinema italiano a Cannes 2016 – dove Pericle il nero è stato selezionato nella comunque prestigiosa vetrina di Un Certain Regard – dopo il nulla del concorso ufficiale, rischia davvero, più che la bocciatura per demeriti qualitativi, un anonimato dovuto all’incapacità di rischiare.
Daniele De Angelis