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Pelé

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VOTO: 7

Il Dio della Ginga

In qualche occasione, prima di addentrarsi in qualsivoglia disamina critica, alcune premesse sono doverose. Il biopic Pelé, ad esempio, diretto dai fratelli statunitensi Jeff e Michael Zimbalist, soffre in tutta evidenza di un vizio di forma connaturato. Stante la supervisione produttiva dello stesso campione, il lungometraggio non solo elimina a monte ogni zona d’ombra sull’esistenza del mitico giocatore brasiliano, ma impiega tutti – ma proprio tutti – i suoi cento e sette minuti di durata al quasi unico scopo di esaltarne la leggenda. Se tuttavia si riesce a scavallare tale, non insormontabile, difetto di partenza – che dà comunque il là a tutta una serie di effetti collaterali in seno al film, in primis una visione sin troppo semplicistica e manichea delle vicende ivi narrate – resta comunque la poesia pura espressa da colui che per molti è stato ed è tuttora il più grande calciatore che abbia mai calcato il classico prato verde con due porte alle estremità. Un talento unico perfettamente assecondato, è davvero il caso di affermarlo, da una regia cinematografica che ricostruisce con ottima perizia e conseguente efficacia le azioni di gioco che videro coinvolto in gioventù l’ormai ultrasettantenne Pelé. Del resto l’intera confezione del film – a partire dalla translucida fotografia di Matthew Libatique, splendido collaboratore di molti lavori firmati da Darren Aronofsky, fino all’efficace estetica da videoclip iperrealista imposta dal duo registico – si propone subito come di alto profilo, ben intenzionata a scrivere una parola il più possibile definitiva in calce ad una storia personale ormai divenuta, appunto, leggenda universalmente conosciuta.
Eppure, al di là della retorica di prammatica, l’origine documentaristica degli Zimbalist – anche in quest’occasione sceneggiatori del film – si palesa soprattutto nella consapevolezza con cui mettono a confronto alcune istanze affatto trascurabili. Nel raccontare i fantastici otto anni di vita del campione brasiliano, dall’infanzia poverissima nelle favelas sino alla finale della Coppa del Mondo 1958 in Svezia, competizione nel corso della quale l’ancora minorenne Pelé lasciò un segno indelebile, si pone con chiarezza la questione identitaria di un Brasile (con la squadra di calcio a rappresentare un intero popolo) impegnato nella disperata ricerca di un equilibrio razziale. Uno stile di vita, un modo di pensare ancora “libero e selvaggio” messo aspramente in discussione soprattutto dopo la finale mondiale persa in casa nel 1950 dall’Uruguay, vissuta dal paese tutto come una sorta di traumatico dramma nazionale. L’immagine del film che resta nella memoria è quella di Pelé bambino (al tempo soprannominato Dico) che osserva il padre piangere silenziosamente al termine della suddetta partita. Da lì parte un processo che vede la nazionale di calcio, parallelamente all’esplosione del campione, tentare inutilmente di imporsi delle regole tattiche all’europea, snaturando così la propria mentalità. E sarà ovviamente proprio il Dio della Ginga – una delle mosse principali della Capoeira, l’arte marziale principale brasiliana di antichissima importazione africana – a ristabilire le giuste sintonie di un calcio (e di un paese) agonizzante. Nel nome di una fantasia che, a maggior ragione oggi e non solo in ambito calcistico, andrebbe preservata con certosina cura.
Pelé, inteso sia come icona che come opera cinematografica, è dunque un’effige incancellabile che va ammirata per ciò che rappresenta: un vero e proprio inno all’individualità messa al servizio di un collettivo, affinché non rimanga la narcisistica esibizione di una bellezza destinata a vivere quanto una farfalla. Il campione, lo sapevamo già ed il film non fa altro che ribadirlo ancora una volta, ha fatto del proprio immenso talento una sorta di vangelo popolare in grado di unire ogni ceppo razziale di un paese in continua ricerca di una rotta capace di condurlo fuori dalla tempesta. Anche per un lasso di tempo limitato. Perché se il calcio alla fin fine può essere davvero “l’oppio dei popoli”, allora siamo tutti prontissimi ad immergerci nel delirio collettivo in cui solo eletti come Pelé hanno saputo condurre per mano intere generazioni dello sterminato Brasile. E nemmeno troppo in fondo l’augurio che facciamo ad un film come Pelé è che riesca a fare almeno in parte giustizia “internazionale” nei confronti di un fenomeno il quale, purtroppo per lui, non è vissuto in tempi di globalizzazione totale come quelli attuali. Altrimenti il delirio planetario sarebbe stato praticamente inimmaginabile…

Daniele De Angelis

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