Love is Madness
Di quest’ultima edizione dell’Irish Film Festa ci è rimasta impressa un’immagine, a dir poco emblematica: gli incontri in sala tra Lenny Abrahamson e Terry McMahon, caratterizzati da una serie di vivaci scambi di battute e di reciproci, calorosi apprezzamenti per quanto realizzato finora in ambito cinematografico. Nel caso di Lenny Abrahamson c’è veramente poco da aggiungere. La produzione dell’eclettico cineasta dublinese, di cui quest’anno è stato riproposto il folgorante esordio nel lungometraggio, Adam & Paul, accanto al recentissimo Frank, è tale da farcelo considerare uno dei più puri e vispi talenti presenti attualmente in Europa. C’è quindi da essere grati all’Irish Film Festa, per aver esplorato in lungo e in largo durante questi anni la sua filmografia. Ma al fianco dell’autore ormai riconosciuto si è palesata una nuova figura, imponente anche come statura fisica: Terry McMahon è un gigante dall’aria sorniona, capace intanto di impressionarti a parole, con la disinvolta, (auto)ironica descrizione del proprio percorso artistico e umano, per poi stenderti con la potenza di uno sguardo cinematografico vibrante, senza compromessi, profondo.
Veniamo subito al sodo: Patrick’s Day, opera seconda di Terry McMahon, è una delle visioni più esaltanti e pregne di significati, nelle quali ci si è imbattuti di recente. A riassumerne il plot sembrerebbe semplicemente amor fou, distillato magari in gocce purissime. Ma c’è dell’altro. C’è molto di più. Sin dalla scelta di collocare l’incontro tra i due protagonisti non in un giorno qualsiasi, ma in quello della festa nazionale irlandese, il celeberrimo St. Patrick’s Day, si scorge la volontà di far slittare il terreno della narrazione da una vicenda privata al dipanarsi di sottili risonanze metaforiche, scuotendo così a differenti livelli lo spirito degli spettatori più sensibili.
L’epicentro del racconto è Patrick (Moe Dunford), ragazzone affetto da sindrome schizoide la cui esistenza oscilla su un bordo pericoloso, tagliente, tra la cosiddetta “normalità” e quelle anomalie caratteriali cui le persone attorno a lui devono pur relazionarsi, non necessariamente allo stesso modo. È in particolare sua madre Maura (Kerry Fox), anziana “virago” dai lineamenti duri e dallo sguardo indagatore, a spingere il proprio desiderio di essere protettiva fino a vertici di autentica ossessione, castrando così le speranze di riscatto che il giovane sembrava aver trovato incontrando Karen (Catherine Walker): una hostess molto bella, caratterialmente aperta, la cui vita sta però naufragando in un caos fortemente autodistruttivo, al punto che non le sembrerà poi così strano aggrapparsi alla passione per un ragazzo talmente instabile, problematico, ricevendone in cambio un calore umano mai sperimentato altrove.
Artista dei primi piani come dei giochi di messa a fuoco, funzionali qui alla rappresentazione degli stati confusionali cui il protagonista va incontro, Terry McMahon sta incollato ai suoi personaggi con una dedizione assoluta, in grado di far passare le sfumature più intime del dramma sentimentale in corso. Tali attenzioni registiche vengono regolarmente premiate da interpreti la cui buona vena è altrettanto evidente. In particolare Moe Dunford, anch’egli ospite dell’Irish Film Festa, emerge dal film nelle vesti di autentica rivelazione: l’attore irlandese, caro al pubblico per serie di culto come Vikings e Game of Thrones, ha dimostrato nella circostanza tutto il suo talento, immedesimandosi tanto nella particolare sensibilità che negli stati di alterazione del suo personaggio, senza mai dare adito a esiti forzati o macchiettistici. Attorno a lui altri comprimari di lusso. Su tutti il navigato Philip Jackson, nei panni di un detective di polizia dai comportamenti a volte bizzarri, trascinato nella storia dalla stessa madre di Patrick.
Proprio l’arcigna Maura, il poliziotto in questione e le figure vagamente inquietanti dell’istituto psichiatrico dove Patrick risiede, vivendo in un regime di semi-libertà, si rivelano strada facendo i cardini di quel plot che vuole mettere in discussione, anche con sottigliezza, i parametri della normalità, contrapponendo alle possibilità di recupero dello stesso Patrick un apparato repressivo insensibile ai richiami del cuore. E queste dinamiche si sviluppano magnificamente sullo schermo, fino a un epilogo girato in stato di grazia e dalle diverse possibili interpretazioni: come lo stesso autore dopo la proiezione ha voluto precisare, l’essenza di ciò cui Patrick assiste, alla fine, può avere un segno opposto a seconda di ciò che gli occhi dello spettatore vogliono vedere, se cioè in essi è un quasi folle romanticismo ad imporsi o se prevale invece l’amara consapevolezza dei limiti, spesso brutali, ai quali la nostra società deve sottostare. In entrambi i casi la carica genuinamente eversiva di un film come Patrick’s Day è salva.
Stefano Coccia