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Paris Calligrammes

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VOTO: 9

I tanti tesori dello scrigno parigino

Ulrike Ottinger. Le sue esperienze giovanili. L’incontro con la Parigi degli anni ’60, con la sua intensa e forse impareggiabile vita culturale. I rapporti con la tradizione ebraica. Le ripercussioni sul dibattito pubblico della questione algerina. Il mai scontato prendere posizione di un Sartre o un Camus. Le peculiari movenze dei netturbini francesi al lavoro. L’impronta dadaista di Tristan Tzara. Il dolente ricordo del periodo bellico, delle deportazioni naziste, degli intellettuali morti tragicamente (“le messi più ricche della stagione, lasciate marcire su un campo tedesco“) in quelle infauste, terribili circostanze, qui rievocate nei raggelanti versi di Walter Mehring, talentuoso scrittore e illustratore.
Immagini di repertorio. Frontespizi di libri. Ricordi personali. Tracce musicali “rubate” a qualche chansonnier dell’epoca. Disegni del mimo Marcel Marceau. Scrittori pubblicati un tempo da Gallimard. Citazioni cinefile (“Uno spettacolo per coloro che non hanno gli occhi nelle tasche!“, da Les enfants du Paradis) che conservano un retrogusto inconfondibile, oltre che rivelatore.

C’è ne davvero tanta di carne al fuoco in Paris Calligrammes, accorata celebrazione di una metropoli dall’aura leggendaria e di quelle pagine del Novecento che sembrano farsi strada a fatica, diradando le nebbie del tempo che le ha inghiottite. “Cari entusiasti del cinema“, questo l’incipit del bellissimo, trasognato videomessaggio inviato al pubblico del 32° Trieste Film Festival dalla poliedrica cineasta tedesca, in gioventù anche pittrice e fotografa, ma soprattutto testimone privilegiata di quel mondo perduto. Pertanto lasciamo nuovamente la parola all’autrice: “Il film unisce le mie memorie degli anni ’60 a un ritratto della città, una cartografia sociale di quel periodo. Come nella raccolta di poesie di Guillaume Apollinaire Calligrammes: Poèmes de la paix et de la guerre, ho voluto usare la forma di un ‘calligramma’ filmico, in cui parole e immagini, unite al linguaggio, al suono e alla musica, formano un mosaico che restituisce la vivacità di quegli anni, e la fragilità delle conquiste culturali e politiche.

Paris Calligrammes si offre allo sguardo curioso dello spettatore come un diario, intimo e foriero al contempo di vivide istanze collettive, da sfogliare tenendo gli occhi puntati sui luoghi, le facce, le opere. Il ricettario si amplia notevolmente strada facendo, con lo stesso gusto antologico di un libro di Claudio Magris o del celebre Breviario mediterraneo di Predrag Matvejevic . Le mansarde affittate a poco. I musei. Le gallerie. I caffè aperti fino all’alba. Le aste rinomate in tutto il mondo. Gli affollati mercati rionali. Le trasformazioni urbanistiche e sociali che hanno influito anche sulla toponomastica.
Con in più un fulcro sempre più evidente, nella colorita mappa delle rimembranze, rappresentato per l’occasione dalla Librairie Calligrammes di Fritz Picard, punto d’incontro delle culture tedesca e francese (“In mezzo a tutti questi libri, e quindi un po’ intimidito, ed è per questo che la calligrafia è approssimativa, faccio i miei migliori auguri al padrone di casa“, lasciò scritto Paul Celan sul libro degli ospiti) nonché luogo particolarmente caro all’autrice. Intervallando il racconto con aneddoti riguardanti i propri incontri alla Cinémathèque française e con immagini delle singolari pellicole da lei dirette, su tutte Laokoon & Söhne (1973) e Freak Orlando (1981), una regista come Ulrike Ottinger ha dimostrato ancora una volta di sapersi muovere con invidiabile libertà stilistica e concettuale, regalandoci un ritratto della capitale francese tanto ricco culturalmente, quanto denso sul piano emotivo.

Stefano Coccia

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