Noi giudichiamo, noi veniamo giudicati
L’ascesa del potere nazista e lo sterminio di milioni di ebrei nei campi di concentramento: una delle più grandi tragedie del ventesimo secolo. La ferita – in seguito a quanto è accaduto – è, al giorno d’oggi, ancora aperta. Possiamo vederlo, ad esempio, anche in ambito cinematografico. Numerose sono, infatti, le pellicole trattanti l’argomento prodotte in Germania. Questa volta, però, abbiamo un prodotto che viene direttamente dalla Russia e che – attraverso tre storie di chi ha vissuto in prima persona l’accaduto – prende spunto dai numerosi episodi che hanno visto diversi cittadini russi nascondere ebrei durante i raid nazisti: si tratta di Paradise, diretto dallo stimato regista Andrei Konchalovskiy, il quale – già premiato a Venezia con il Leone d’Argento nel 2014 per A Postman’s White Nights – per questo suo ultimo lavoro si è aggiudicato il Leone d’Argento per la Miglior Regia, ex aequo con La région salvaje di Amat Escalante.
Olga è una nobildonna russa, arrestata per aver nascosto dei bambini ebrei durante un raid nazista. Jules è un collaborazionista franco-nazista, incaricato di indagare sul caso della donna. L’uomo, però, si invaghisce di Olga e, con la promessa di farle ottenere una punizione meno severa, le chiede in cambio favori sessuali. Helmut è un giovane ed affascinante soldato nazista, il quale tempo addietro aveva incontrato Olga ad una festa e si era innamorato di lei. Ritrovandola in un campo di concentramento, cercherà di aiutarla a scappare fornendole un passaporto falso.
Andrei Konchalovskiy, si sa, difficilmente ha deluso, in passato, le aspettative del pubblico e della critica. Ed anche in questo suo ultimo lavoro, ha fin dai primi minuti dato prova del suo talento, avendo messo in piedi tre storie che funzionano, con personaggi fortemente empatici e ben caratterizzati e con una sceneggiatura di ferro. Fin qui tutto bene. Eppure, Paradise – nel corso del suo svolgimento e, soprattutto, durante il finale – ha purtroppo fatto storcere il naso più e più volte.
Al di là dell’ottima confezione – sia per quanto riguarda la fotografia, con un curato bianco e nero, sia per quanto riguarda la struttura narrativa stessa – questo ultimo lavoro del maestro russo presenta al suo interno non pochi manierismi, oltre ad un imbarazzante scivolone nel finale, che ha fatto sì che ne risentisse tutto il film. Stridono con il resto della messa in scena, ad esempio, i momenti – in flashback – riguardanti il primo incontro tra Olga ed Helmut: un carosello di nobili danzanti sulle note – rigorosamente extradiegetiche – di Parlami d’amore Mariù. Così come stride la voce fuoricampo di Dio che, proprio in chiusura – e ciò è talmente chiaro da rendere il tutto pericolosamente didascalico – chiama a sé Olga dopo il racconto della donna – presso una sorta di “banco degli imputati” – circa la sua vita. Ecco, in realtà l’idea di far parlare – di quando in quando – i tre protagonisti da un ipotetico Aldilà, è una trovata piuttosto interessante. Se non altro nuova, se la si vede nell’ottica di una pellicola ambientata durante il periodo nazista. Il problema sta, però, nel voler strafare. Soprattutto se si pensa in grande, con l’idea di concorrere all’ambito Leone d’Oro. Errore, questo, che, però, non è stato commesso con il recente A Postman’s White Nights. Che sia solo una sporadico episodio nella cinematografia del regista russo? Questo, ovviamente, è quello che ci auguriamo.
Volendo, però, essere indulgenti e guardare il film con occhio distaccato, senza spaccare necessariamente il capello in quattro, Paradise è, tutto sommato, un’opera gradevole ed onesta, che – facendo pensare per molti versi a Il nastro bianco di Michael Haneke – riesce a coinvolgere lo spettatore e si lascia seguire fino alla fine. Cosa, questa, più difficile da ottenere di quanto si possa pensare.
Marina Pavido