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Paradise Beach – Dentro l’incubo

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VOTO: 6

La Bella, la Bestia e il gabbiano

Se si va in cerca di una spiaggia paradisiaca nascosta nel cuore del Messico, si troverà il mare. E dentro il mare è molto probabile ci siano dei pesci. Se si è parecchio sfortunati tra di loro potrebbe annidarsi pure un feroce predatore. A questo avrebbe dovuto fare attenzione la sventurata surfista Nancy (Blake Lively), unica protagonista umana di Paradise Beach – Dentro l’incubo, ultima fatica registica del catalano Jaume Collet-Serra, cineasta di ottima competenza tecnica e perciò da subito assimilato all’industria statunitense.
The Shallows – questo il titolo originale, cioè acque basse: a significare una porzione di mare relativamente tranquilla poiché in teoria scevra di pericoli – è in fondo la perfetta esemplificazione del suo modus operandi cinematografico: più che decoroso survival-movie nel mentre si concentra unicamente sull’impianto spettacolare, lungometraggio che gira vistosamente a vuoto quando si tratta di dare profondità a personaggi e situazioni. Ci fossimo trovati in un’altra dimensione produttiva, con il film interamente incentrato sul duello all’ultimo sangue tra la Bella e la Bestia, Paradise Beach sarebbe probabilmente risultato un piccolo oggetto di culto, degno di ammirazione per la dirompente carica selvaggia emanata. Fiumi d’inchiostro si sarebbero versati sui significati occulti e metaforici dello squalo bianco – più o meno simbolico esemplare maschio, ovviamente – e sulla strenua resistenza dell’eroina femminile se non anche femminista. Al contrario, appesantito da quegli stilemi così tipici del cinema contemporaneo, tipo un incipit in found footage del tutto superfluo e incongruo, cosi come la “toccante” confessione alla telecamerina di turno del personaggio di Nancy – peraltro in crisi esistenziale poiché recentemente rimasta orfana di madre – il film di Collet-Serra deraglia spesso nei territori convenzionali del luogo comune, inserendo in modo del tutto arbitrario parentesi melodrammatiche ingiustificate. Di contro, probabilmente unica nota da segnare pienamente all’attivo del bilancio, Paradise Beach presenta una specie di record, mettendo in scena lo squalo più famelico della Storia del Cinema. Come ovvio non si pretende da un film di finzione la verosimiglianza di un documentario; però l’esemplare predatorio cinematograficamente trattato nell’occasione rischia di far sembrare l’illustre progenitore spielberghiano una sorta di ordinaria creatura marina alla Jacques-Yves Cousteau, visto l’accanimento con il quale divora in poco più di un giorno – la narrazione avviene quasi in tempo reale – mezzo balenottero e tre variegati esemplari di esseri umani, con l’aggiunta del marcamento strettissimo nei confronti della protagonista, costretta alla “prigionia” in pochissimi metri cubi d’acqua.
Ecco, se solo gli autori avessero tenuto un minimo a mente le caratteristiche di tutti i lungometraggi girati in passato sulla medesima falsariga (e ce ne sono stati in abbondanza…), probabilmente Paradise Beach – Dentro l’incubo sarebbe potuto divenire un utile e definitivo compendio in materia. Così com’è, nonostante l’impegnativo tour de force interpretativo da parte di un’efficiente Blake Lively, nel desiderio incontenibile di realizzare un’operina quanto più possibile trendy, il prodotto finale appare più simile ai thriller cartolineschi in stile John Stockwell, dimenticabili un attimo dopo la visione, anziché a qualcosa di veramente originale. Tutto ciò nonostante i mezzi a disposizione e l’indubbia sapienza tecnica condensata alla voce regia. Non fosse per la presenza del “convitato di pietra” con la pinna, umanizzato e dunque reso ciecamente rabbioso fino all’eccesso da una sceneggiatura – firmata da Anthony Jaswinski (Vanishing on 7th Street, Kristy) – che descrive il gigantesco esemplare di Carcharodon carcharias più somigliante ad un kamikaze dell’Isis piuttosto che ad un predatore mosso da istinti primordiali. Forse pensando che in tal modo potesse incutere maggior timore nei confronti del pubblico. Al quale, come al solito, spetta la sentenza ultima a proposito di un film progettato in larga prevalenza per attirarlo al cinema e null’altro.

Daniele De Angelis

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