Miti polinesiani, antropologia e grande animazione
C’è da dire che già da qualche anno il livello di creatività della Disney era parso in leggera risalita. Quantomeno se confrontato alla tendenza a ripetere formulette facili e mondi fiabeschi inondati di colore ma al contempo un po’ scontati, con cui si era riproposta sul grande schermo (specie durante il periodo natalizio) per un decennio abbondante. Ebbene, qui siamo stati presi in contropiede non da una semplice e magari parziale sorpresa, ma dal senso di autentica meraviglia che Oceania trasmette!
Fa piacere, poi, che alla base di tutto ci siano il solido mestiere e la classe di due veterani della scuderia Disney, Ron Clements e John Musker, che assieme al loro staff hanno deciso di “ringiovanire” una poetica ormai annacquata, attingendo paradossalmente proprio alla tradizione: non una tradizione qualsiasi, bensì quella così ricca di suggestioni e di matrice dichiaratamente animistica delle popolazioni polinesiane. Un mondo di divinità tribali e vaste distese oceaniche da colonizzare; di isole vulcaniche e piroghe che solcano le onde; di imprese semi-leggendarie e stili di vita tramandati oralmente o magari col canto dai più anziani. Ma il team Disney non si è accontentato di recuperare quanto era già pervenuto, nel nostro emisfero, di tale cultura. Con grande professionalità e un approccio intellettuale indubbiamente onesto hanno fatto rotta per quelle mete polinesiane, dove è stato possibile approfondire un determinato sostrato antropologico, studiare le leggende locali e trovare altri spunti. Ciò che a noi più interessa è che da questo “studio sul campo” siano nate poi le premesse di un lungometraggio d’animazione di notevole profondità, freschezza e smalto visivo.
In Oceania, film dal fiero approccio paganeggiante alla narrazione, il punto di partenza è ben radicato nel mito. Le prime scene ci mostrano infatti la temeraria e prometeica azione tentata secoli prima da un semidio, il possente Maui, intento a compiere un furto ai danni di una ancestrale divinità, con lo scopo di ottenere gloria e onori presso gli uomini, aiutandoli al contempo a emanciparsi da certe costrizioni. Ma il risultato dello sconsiderato gesto era stato assai differente da quello previsto. Maui caduto in disgrazia; un oggetto dagli enormi poteri disperso nelle vaste distese oceaniche; equilibri naturali sempre più precari e minacciosi, per il destino di quegli uomini che hanno poi perduto, col tempo, persino l’arte di navigare spostandosi da un’isola all’altra.
Quando le cose per la piccola comunità indigena asserragliata pacificamente da tempo in un piccolo atollo polinesiano si faranno via via più difficili, sarà la giovanissima e coraggiosa figlia del capotribù, Vaiana, a rompere un taboo radicato negli anni per seguire una profezia ancora più antica. Sostenuta dalla forza stessa dell’Oceano, incoraggiata da una nonnina che non ha perso contatto con le tradizioni di una volta, la ragazza si avventurerà spavaldamente da sola nelle acque aperte del Pacifico per rintracciare Maui e rimettere con lui ogni cosa al suo posto…
Per Ron Clements e John Musker, già co-registi di un classico come La sirenetta, questo ritorno alla cornice marina è avvenuto nelle circostanze più felici che si potessero immaginare. Da un lato ha inciso la bontà della storia narrata, che si potrebbe sintetizzare come uno spigliato connubio di innovazione e tradizione. L’importante casa di produzione americana riprende qui alcuni presupposti del suo modo abituale di raccontare, con una serie di impulsi nuovi. Non solo il differente e più spesso rilievo dato a un sostrato culturale apparentemente così remoto. Ma anche, volendo, una diversa concezione dei personaggi: Vaiana, come un intelligente dialogo del film tende a rimarcare, non è la classica principessa Disney circondata da animaletti. Qualche animaletto buffo e pasticcione c’è pure. Un energico personaggio maschile (ben distante dagli ormai spremuti “principi azzurri” di un tempo, s’intende) s’accoda, dopo un’iniziale ritrosia, alla grande impresa. Eppure Vaiana si configura sin dall’inizio come un’eroina dal carattere tutto suo, responsabile, indipendente, come a sancire un cambiamento radicale nel rapportarsi ad animaletti fatati e prodi cavalieri. La sua relazione col mondo circostante, oltre ad unire un retaggio antico con la modernità dei comportamenti più personali, sembra nutrirsi di un afflato panteistico che rende poi più credibile, nel serrato e amorevole confronto finale con quelle divinità naturali offese dall’operato umano (condensato magari nella scriteriata azione iniziale del semidio), l’evidente richiamo alla poetica degli animatori nipponici e in particolare di Hayao Miyazaki. A rendere tutto più fluido è poi l’impianto formale del lungometraggio. Anche quando le storie erano più scialbe, la Disney raramente poteva essere contestata dal punto di vista tecnico e, tanto per fare un esempio concreto, dell’accuratezza dei fondali. Con Oceania l’impressione è che si sia offerto anche in questo qualcosa di più, tramite la liquidità così tangibile, sensoriale, dell’acqua marina e del magma vulcanico, elementi portanti dell’ambiente ivi descritto, la cui presenza in scena è resa così bene da trasformare la Natura stessa in personaggio dall’impatto fondamentale.
Stefano Coccia