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Obbligo o verità

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VOTO: 4.5

Effetti da peyote

Capita piuttosto raramente che il ruolo di produttore assurga ad autentico deus ex-machina di un qualsiasi progetto cinematografico. Eppure con Jason Blum e la sua casa produttrice Blumhouse non si può davvero fare a meno di pensare a quanto il marchio influenzi il prodotto finale. Riproponendo ancora una volta l’annosa questione se l’horror – genere di riferimento del nostro – debba innanzitutto spaventare o divertire. Se le due condizioni convergono abbiamo dei cult come Scappa – Get Out di Jordan Peele; se invece prevale la seconda istanza ecco l’intrattenimento “parassitario” ma riuscito di Auguri per la tua morte di Christopher Landon. Ciò dando per scontato che la paura dura e pura sia obiettivo difficilmente raggiungibile, soprattutto nei tempi omologati che viviamo. C’è però poi una terza via, spesso praticata dai lungometraggi targati Blumhouse, che è quella del citazionismo insipido, assemblato in modi così puerili da far sorgere solamente noia alla visione. Ed è purtroppo questo il destino a cui va incontro un filmettino asfittico come Obbligo o verità, affidato in regia al mediocre Jeff Wadlow, uno che vanta Kick-Ass 2 (sequel in tono minore del cult di Matthew Vaughn) come titolo da esibire in un potenziale curriculum.
Ben quattro sceneggiatori – tra cui lo stesso Wadlow; gli altri non li nominiamo per non far perdere ulteriore tempo a chi legge – hanno partorito, probabilmente sotto l’effetto di qualche potente allucinogeno, il seguente canovaccio narrativo. Solito gruppo di adolescenti statunitensi, messi lì per completa solidarietà con il target a cui è rivolto il film, si lascia convincere da un misterioso coetaneo a sconfinare in Messico per concludere alla grande uno spring-break in realtà piuttosto moscio. Come farebbero tutti i ragazzi sani di mente seguono il figuro fino ad una chiesa sconsacrata e diroccata, dove il tipo propone di giocare, per l’appunto, al famigerato “obbligo o verità”. Omettendo però il piccolo particolare che un demone (!!) si è impadronito del gioco, rendendolo una faccenda mortale per coloro che non ne rispettano le regole basiche. Inutile dire che, nonostante il ritorno a casa e all’apparente normalità, la convenzionale mattanza avrà testé inizio. L’idea a monte del progetto sarebbe quella di ibridare il concetto di maledizione alla It Follows – anche se il sesso non c’entra, trattandosi di opera tutt’altro che “adulta” – con la spettacolarizzazione della morte tipica della saga di Final Destination, dove almeno lo splatter diveniva una questione estetica. Al contrario, in Obbligo o verità ogni spunto che avrebbe potuto suscitare una valenza morale viene, come si suol dire, “soffocato in culla” a beneficio, si fa per dire, di colpi di scena narrativi degni di una soap di quarta categoria al cui confronto le ipocrisie tra pseudo-amici del nostrano Perfetti sconosciuti assumono una statura quasi bergmaniana.
Tralasciando un paio di jump scare da minimo sindacale, in Obbligo o verità ciò che fa veramente paura è il vuoto pneumatico di idee nella descrizione dei protagonisti, tutti scartavetrati seguendo il bignami del genere d’appartenenza. L’apparente brava ragazza con un pesante segreto alle spalle, la bellona un po’ puttanella, il gay timoroso di palesare il suo orientamento sessuale eccetera, eccetera. E non poteva mancare, nel finale, la prevedibilissima tirata moralistica contro la globalizzazione del web, con nientemeno che youtube a fare da veicolo di contagio dopo un goffissimo tentativo di spossessare il gioco dalle mani del famigerato demone. Come se la saga di The Ring, tanto per fare un esempio tra tanti, non fosse mai esistita.
Non resta allora che attendere come l’iperattiva Blumhouse, da qualche temerario definita una fucina di talenti atta alla rinascita del genere horror, non azzecchi, per il semplice calcolo delle probabilità, qualche altro buon film. Senza comprendere il fatto che lungometraggi insulsi tipo Obbligo o verità rappresentino alla perfezione la media qualitativa dei prodotti della casa. La quale Blumhouse, alla fine della fiera, se la ride comunque in base alla semplice equazione tra costi irrisori e incassi in rapporto comunque consistenti. Come sempre avvenuto sin qui.

Daniele De Angelis

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