La stramba coppia
Ma davvero, in campo sentimentale, gli opposti possono attrarsi senza ostacoli di sorta? La risposta è affermativa. Se non nella vita – o almeno raramente – perlomeno al cinema. Dove tipologie di persone agli antipodi finiscono con l’avvicinarsi fino a sovrapporsi.
Lei è Charlotte Field, bellissima, austera ed efficiente Segretario di Stato di un’ipotetica – sebbene “stupidamente” realistica nella personificazione del suo leader presidenziale – amministrazione statunitense; lui è Fred Flarsky, corpulento giornalista d’assalto dall’aspetto nemmeno troppo vagamente fricchettone, ebreo e di sinistra, nonché dedito alla cannabis ed altre droghe leggere. I quali se rincontrano casualmente dopo un curioso episodio accaduto molti anni prima, nelle loro rispettive adolescenza e infanzia. Lei, infatti, di qualche anno più grande, era stata per un periodo la baby sitter di lui. Due personaggi brillanti che finiscono con l’acquisire maggiore credibilità sul grande schermo grazie alle ispirate interpretazioni di una Charlize Theron in forma smagliante, sia estetica che recitativa, e di un Seth Rogen sempre più in “modalità John Belushi” prima della troppo prematura (ahinoi..) dipartita di quest’ultimo. E tutto ciò già sarebbe sufficiente per un paio d’ore di relax cinematografico. Per il resto, Non succede, ma se succede…, banalotto titolo italiano per il genialmente ambiguo Long Shot originale (il “tiro lungo” ha infatti un duplice riferimento, sia temporale che… di secrezione fisiologica, come capirà chi vedrà il film) non eccede in particolare originalità, tentando di ibridare, con parziale successo, la commedia romantica con il glorioso politically uncorrect ufficialmente sdoganato nel cinema popolare dai fratelli Farrelly in Tutti pazzi per Mary un paio di decadi orsono nel 1998. Linea narrativa che il regista Jonathan Levine – uno che al tempo degli esordi con All the Boys Love Mandy Lane (2006) e Fa’ la cosa sbagliata (2008) prometteva qualcosa di più di una commercialità di buona confezione – si limita ad assecondare senza troppi voli pindarici.
Tutto ok, insomma. Se non fosse che la sceneggiatura firmata a quattro mani da Dan Sterling e Liz Hannah paradossalmente fatica un po’ a stare dietro alla brillantezza dei due scatenati personaggi, indugiando in pause e ripetizioni narrative che non giovano alla loro evoluzione, sia pur scontata come i luoghi comuni del caso prevedono. Scambio di personalità in primis.
Il peccato originale, veniale quanto si vuole ma purtroppo da rimarcare in sede di analisi critica, in questo genere di lungometraggi è sempre uno e uno soltanto: il timore di andare fino in fondo con la cattiveria avvertendo dunque la necessità, ad un certo punto, di compensare la satira irriverente con un preordinato buonismo di fondo. Ecco allora che Non succede, ma se succede… abbandona improvvisamente le vesti di opera satirica sui costumi made in U.S.A. per farsi latore implicito di una sorta di messaggio pacificatore a livello nazionale, con le visioni politiche di democratici e repubblicani unite nel nome di un cambiamento da tutti auspicato nella finzione. Accostandolo alla realtà contemporanea parrebbe quasi un film fantascientifico, ma l’epilogo del film diventa quasi un simpatico manifesto per un possibile futuro prossimo della superpotenza mondiale, con il palese messaggio di superare le divisioni dell’era-Trump per affidare il futuro in mani (finalmente) femminili, eque e ispirate. Anche se magari senza un “first mister” ingombrante come Seth Rogen…
Comunque sia Non succede, ma se succede… assolve appieno il proprio compito di intrattenere più che decorosamente, anche senza compiere quel salto di qualità che lo avrebbe annoverato tra le commedie indimenticabili della stagione. La penna arguta e avvelenata di un Billy Wilder, tanto per fare un nome tra gli immortali del genere in chiave classica, resta impossibile anche solo da imitare pallidamente, obiettivo che Long Shot in qualche momento si pone. Questo almeno sino a quando si continuerà a realizzare film seguendo pedissequamente l’ipotetico gusto del pubblico, azzerando qualsivoglia pretesa autoriale. Quando si parla di “massificazione culturale”, del resto, ci si riferisce esattamente a risultati del genere.
Daniele De Angelis