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Non si può morire ballando

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VOTO: 6

La memoria dell’acqua

C’è modo e modo di raccontare la malattia: da una parte chi come il compianto Mattia Torre ha saputo ne La linea verticale portarla sullo schermo con uno humour travolgente e al contempo tanto intelligente da non risultare mai irrispettoso, dall’altra chi ha scelto invece di percorrere la strada drammatica facendosi portatore del dolore e della sofferenza dei personaggi coinvolti. Poi c’è chi come Andrea Castoldi ha deciso di affrontare l’argomento posizionandosi esattamente nel mezzo. Nella sua nuova fatica dietro la macchina da presa dal titolo Non si può morire ballando, nelle sale a partire dal 3 ottobre con Distribuzione Indipendente, il regista lombardo mescola senza soluzione di continuità leggerezza e tragedia per dare forma e sostanza a una dramedy che ha il merito di non scivolare mai nel pietismo a buon mercato e nella spettacolarizzazione fine a se stessa. Trappole, queste, nelle quali la stragrande maggioranza delle opere analoghe cadono, trascinando con sé scrittura, messa in quadro e performance attoriali.
La pellicola ci catapulta al seguito di due fratelli, Gianluca e Massimiliano, che vivono il dramma di una malattia da un’angolazione diversa dello stesso letto di un ospedale. Uno, Massimiliano, è seduto su una sedia. L’altro, Gianluca, su quel letto è sdraiato da settimane a causa di una malattia rara chiamata “le cellule dormienti”, di cui non si conosce la cura e dalla quale non si può guarire. Ma mentre il tempo trascorre inesorabile, un vecchio studio sulla malattia apre nuove speranze e i protagonisti si rendono conto che forse non tutto è perduto. Il percorso è quello di affrontare la malattia attraverso l’elogio del ricordo. Rivivere le emozioni di una vita, quelle che fanno vibrare il cuore, tremare l’anima, magari può risvegliare le cellule dormienti di Gianluca. Massimiliano decide di affidarsi a dei giovani attori amatoriali per mettere in scena alcuni dei ricordi più vividi del fratello, ormai troppo debole per uscire dall’ospedale. Forse un metodo, forse una cura. Forse solo una bella favola d’amore…
La visione del film ci darà tutte le risposte del caso, così da scoprire se tutta questa messa in scena sarà servita a qualcosa. Epilogo a parte, Non si può morire ballando viaggia su binari paralleli; da una parte il limite della scienza e della medicina e dall’altra la forza dell’amore e degli affetti. Per farlo, Castoldi si muove su altrettanti piani, quello del realismo e quello del simbolismo, che trovano nel corridoio dell’ospedale e negli spazi comuni il terreno fertile dove potersi intersecare. Sullo schermo si materializza un “gioco” meta-teatrale che trasforma la stanza della clinica che ospita Gianluca in una sorta di “palcoscenico” dove riaffiorano ricordi sopiti per fare rinascere emozioni andate in letargo. E questo riemergere passa attraverso un percorso di speranza, fede e legami. Perché prima di essere un film su una malattia, quello del cineasta di Monza è un’opera che parla di legami di sangue indissolubili, alcuni dei quali ricuciti dopo strappi che sembravano insanabili.
Ed è qui, nel modo in cui viene trattata la materia e viene estesa all’importanza delle relazioni umane, che la pellicola mostra i suoi punti di forza, quelli che consentono al film di mantenersi a galla sulla soglia di una sufficienza raggiunta anche grazie alle intensità delle interpretazioni di Mauro Negri e Salvatore Palombi, rispettivamente nei panni di Massimiliano e Gianluca. Dove, al contrario, l’opera risulta più fragile è nell’impianto dialogico e nell’uso dei voice over che restituiscono i flussi mnemonici di Gianluca. L’eccesso di afflato di molti di essi carica fin troppo le scene, sottraendo naturalezza e leggerezza al tutto. Toni, questi, che la regia eredita dalla fase di scrittura e che l’autore riesce a fasi alterne a riportare sulla retta via grazie al contributo degli attori principali (molto meno con quelli secondari), della colonna sonora e di uno stile asciutto e scarno della messa in quadro dove a prevalere sono le dilatazioni temporali e la pulizia formale dell’immagine.

Francesco Del Grosso

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