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Nome di donna

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VOTO: 4.5

Il peggio Giordana

Il caso Weinstein, si sa, ha sollevato in tutto il mondo un polverone non indifferente. Al punto da spingere anche alcuni registi a voler trattare lo spinoso argomento delle molestie sulle donne nei loro prossimi lungometraggi. È stato questo, ad esempio, il caso di Steven Soderbergh, il quale ha presentato Fuori Concorso alla 68° Berlinale il riuscito e disturbante Unsane, rivelatosi una delle chicche del festival. E se negli Stati Uniti la reazione a tale evento è stata quasi immediata, anche in Italia c’è chi ha voluto dire la sua sull’argomento, estendendo il discorso alle molestie sul lavoro. Stiamo parlando del cineasta Marco Tullio Giordana, da sempre attendo alle vicende politiche e sociali del nostro paese, che, per l’occasione, ha realizzato Nome di donna, in cui, appunto, ci vengono raccontate le vicende di una giovane ragazza madre alle prese con spinose questioni lavorative.

Nina ha da poco perso il lavoro, ma, fortunatamente, riesce a trovare un nuovo impiego all’interno di una casa di riposo gestita dalla Chiesa, in un piccolo paesino della Lombardia. Tutto sembra andare per il meglio, fino a quando la giovane non viene convocata dopo il lavoro dal direttore, il quale tenterà di abusare di lei. Non sarà facile dimostrare i fatti e denunciare il capo, soprattutto perché la ragazza verrà praticamente abbandonata dalle colleghe, le quali avrebbero troppo da perdere, nel caso in cui decidessero di testimoniare a suo favore.
Situazione non facile, questa trattata da Giordana. Non facile e, soprattutto, più comune di quanto si pensi. Peccato, però, che, malgrado la lucidità con cui il cineasta ha da sempre messo in scena i suoi lavori, in Nome di Donna si legge più che altro un tentativo (quasi) disperato di scagliarsi contro un sistema sbagliato, senza, in realtà, avere molto di nuovo da dire. La storia di Nina, a tal proposito, ci viene esposta con un taglio prettamente televisivo, a tratti in modo smaccatamente telefonato, con tanto di ostacoli risolti con un poco credibile deus ex machina ed una svolta finale troppo veloce per essere realmente convincente.
Se a tutto ciò aggiungiamo anche pericolose cadute di stile che prevedono personaggi fortemente stereotipati (vedi, ad esempio, il personaggio di don Roberto Ferrari, ulteriore antagonista) o eccessivamente caricati (tutte le colleghe della protagonista), unitamente all’infelice decisione di mostrarci una giornalista che, dopo aver parlato in diretta tv del processo avviato da Nina, chiede insicura se la sua performance sia stata o meno convincente, per poi lasciar intendere che anche il suo capo potrebbe comportarsi in modo non ortodosso, ci rendiamo tristemente conto che il cinema di Marco Tullio Giordana sta prendendo una piega che difficilmente avremmo potuto prevedere. Se, infatti, con I cento passi (2000), così come con La meglio gioventù (2003) il regista ha saputo definitivamente creare una propria identità all’interno del panorama cinematografico italiano, già con Romanzo di una strage (2012), pur trattandosi di un prodotto complessivamente dignitoso, è stato meno incisivo del solito. E infine, con Nome di donna, purtroppo, la qualità è drasticamente calata. Sarà ancora possibile tornare a “volare alto”?

Marina Pavido

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