Immersione totale
P.O.V., acronimo di Point Of View (punto di vista), è una tecnica di ripresa cinematografica che consiste nell’effettuare inquadrature e riprese dal punto di vista del protagonista da parte di operatori posizionati dietro o sopra la sua testa. Se l’hardware, ossia la macchina da presa, fosse chiamato a prendere il posto e a replicare in maniera completa e assoluta lo sguardo del personaggio in questione, allora si parlerebbe della cara vecchia soggettiva (vedi il recente Hardcore!), a meno che non vi siano videocamere o altri apparati di ripresa (fotocamere, telefonini, webcam e via dicendo) utilizzati dal personaggio di turno per riprendere una data situazione in un dato momento. Nel tempo, quest’ultima tipologia di sguardo filtrato dagli obiettivi facenti parte del corpo dei suddetti apparati, è diventata essa stessa, oltre che una cifra stilistica, anche una chiave narrativa e un linguaggio con i quali raccontare e non solo mostrare. Cinematograficamente parlando, gli esempi più noti che tornano immediatamente alla mente sono i vari The Blair Witch Project, Cloverfield e REC.
Ma tecnicismi a parte, se questi due modi di catturare e restituire le immagini in prima persona venissero associati, cosa accadrebbe? Se qualcuno un giorno decidesse di fondere gli occhi umani alle estensioni oculari meccaniche, artificiali e digitali, che cosa otterrebbe? Nulla di nuovo, se non il medesimo risultato, ossia quello di mostrare ciò sta osservando il personaggio da un punto di vista soggettivo, direttamente attraverso i suoi occhi o indirettamente attraverso un filtro. E allora dove sta l’elemento di novità di e in No Borders? Sta nel fatto che colui che lo ha firmato, vale a dire Haider Rashid, ha pensato di applicare al tutto la realtà virtuale, così da trasferire sullo schermo un’esperienza oculare e sensoriale. Ne scaturisce un’immersione totale, una catarsi fisica ed emotiva al 100%, che permette allo spettatore di turno di vedere tutto, ma davvero tutto, ciò che accade, abbattendo i limiti della bidimensionalità, andando oltre la tridimensionalità e consegnando al fruitore l’intero spettro visivo. Insomma, una rotazione completa sull’asse e nello spazio a disposizione da parte del protagonista, che in questo caso diventa una cosa sola con il regista e lo spettatore. In questo modo, l’occhio può decidere in quale direzione guardare e cosa guardare: scegliere la classica visione frontale o decidere di voltarsi in favore di quella posteriore. In poche parole, quella offerta da No Borders è una visione a tutto campo, resa possibile dall’immersività della realtà virtuale, che consiste nella realizzazione di un video a 360°. Quello diretto da Rashid è in assoluto il primo documentario made in Italy a sfruttare questa tecnologia. La prima occasione per il pubblico nostrano di vederne il funzionamento è stata la 73esima Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia, dove il cortometraggio è stato presentato nell’ambito delle Giornate degli Autori, grazie all’utilizzo di appositi visori VR. Ovviamente esiste anche una versione flat bidimensionale per la fruizione cinematografica tradizionale, ma sinceramente l’impatto e l’esperienza, credeteci, non è la stessa.
Chiarito e illustrato l’aspetto squisitamente tecnico, a questo punto vi starete chiedendo, giustamente, la suddetta tecnologia è stata utilizzata e sperimentata per raccontare che cosa? I non confini (e con essi i limiti) del titolo dell’opera sono quelli che la realtà virtuale ha letteralmente disintegrato e cancellato per quanto concerne la componente visiva. Questo è un importante passo in avanti. La stessa cosa purtroppo non si può dire per i confini fisici tra gli Stati, quelli che ogni giorno migliaia e migliaia di migranti tentano invano di oltrepassare per raggiungere le destinazioni scelte una volta fuggiti dalle rispettive terre a causa della povertà, della guerra o del malgoverno, magari per trovare nuove opportunità o ricongiungersi con i propri cari. Ebbene quei confini, nella stragrande maggioranze dei casi non si riescono a cancellare, al contrario diventano sempre più invalicabili.
Nella sua ultima fatica dietro la macchina da presa, Haider Rashid si avvale e fa letteralmente sua (caricandosela addosso) questa tecnologia per documentare l’esperienza del passaggio dei migranti in Italia, utilizzato, nella maggior parte dei casi, come territorio di transito e breve sosta in vista di un viaggio verso il nord Europa. Lo short mostra e racconta anche altro, ossia l’esperienza dei volontari e degli spazi autogestiti dedicati all’accoglienza, muovendosi tra il Centro Baobab di Roma – dove molti migranti che transitano per la capitale si fermano nel loro tragitto verso nord – ed il presidio “No Borders” di Ventimiglia, città di frontiera diventata ormai simbolo dell’emergenza migranti e della lotta contro la chiusura delle frontiere. Nel caso di No Borders, la realtà virtuale permette di raccontare l’esperienza della cosiddetta “emergenza immigrazione” portando lo spettatore all’interno dei luoghi di passaggio e sosta dei migranti, dandogli la possibilità di esplorare gli spazi grazie all’utilizzo di un visore. Elio Germano, attore, rapper ed attivista sociale, fa da narratore in questo percorso di scoperta, cercando di andare oltre alla propaganda politica di sfruttamento del fenomeno migratorio, per riuscire ad esporre le ragioni profonde che spingono centinaia di migliaia di donne e uomini a sfidare la morte pur di abbandonare guerre e miserie. In tal senso, la tecnologia acquista dunque una doppia valenza, che ne moltiplica l’importanza, affiancando all’innovazione tecnica applicata al cinema (anche se all’estero è già stata ampiamente sperimentata), il nobile utilizzo che se ne fa sul fronte drammaturgico, ma soprattutto tematico.
L’insieme di questi due fattori rappresenta la vera forza dell’operazione, perché singolarmente non avrebbero avuto lo stesso impatto e la stessa incisività. La potenza delle immagini prodotte si caricano e si fanno veicolo di un messaggio che speriamo arrivi a destinazione. Di documentari sull’argomento, infatti, se ne sfornano migliaia all’anno a tutte le latitudini, per cui trovare una chiave, un approccio e una veste diversa, è per quanto ci riguarda la cosa più intelligente che si potesse fare, almeno per attirare sull’opera di turno – e su ciò che racconta – un motivo in più di interesse. Probabilmente, senza l’uso della realtà virtuale, No Borders sarebbe stato l’ennesimo prodotto audiovisivo sul tema. Per cui la componente tecnologica ha un peso rilevante ed innegabile. Poi il fatto che l’ho abbia pensato, concepito e realizzato, un regista italiano di seconda generazione, che sul tema si era già pronunciato seguendo altre traiettorie in Tangled Up in Blue e Sta per piovere, è ancora più significativo. Ciò che ci ha convinto di meno è la presenza di Germano, sorta di Virgilio chiamato ad accompagnare lo spettatore nel viaggio, del quale il corto, proprio per la potenza sia emotiva che visiva delle immagini e per ciò che riescono a raccontare, avrebbe potuto tranquillamente fare a meno.
Francesco Del Grosso