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Ninna Nanna Prigioniera

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VOTO: 8

Tana (non) libera tutti

Straziante, doloroso, claustrale, ma anche intenso e delicato: si muove sul confine tra questi estremi il documentario di Rossella Schillaci dal titolo Ninna Nanna Prigioniera, presentato tra gli eventi speciali della 24esima edizione di Sguardi Altrove Film Festival e vincitore del Life Tales Award al Biografilm Festival 2016. Sensazioni ed emozioni, queste, che in altre occasioni avrebbero provocato un vero e proprio cortocircuito nel cuore e nella mente dello spettatore di turno, costretto a misurarsi con un ventaglio di approcci empatici diametralmente opposti, di quelli in grado di destabilizzare chiunque. Ma non è questo il caso, perché la pellicola della regista torinese trova il giusto equilibrio tra gli estremi, portando sullo schermo un’opera capace di farsene carico per poi restituirne la potenza catartica.
L’esperienza maturata nel documentario antropologico, di pari passo con il lavoro approfondito su tematiche sociali nelle produzioni del passato e in quelle più recenti, hanno permesso al cinema della Schillaci di dotarsi degli anticorpi necessari per fronteggiare i nemici più grandi del cinema del reale, a cominciare proprio dalla costruzione a tavolino e dalla manipolazione della realtà stessa. Ma riavvolgiamo il nastro per andare a vedere come la teoria si tramuta in pratica e per fare ciò bisogna per forza di cose partire dal plot. Il documentario, che uscirà nelle sale nel mese di aprile con Fil Rouge Media, ci catapulta nel “Nido”, il reparto dedicato alle detenute madri di figli minori di 3 anni all’interno del carcere Lorusso e Cutugno di Torino, per raccontare la storia di Jasmina, una giovane donna di 24 anni che si trova richiusa in regime di custodia cautelare. In cella con lei vivono anche i suoi figli più piccoli: Lolita, di due anni e Diego, di pochi mesi, mentre il figlio più grande vive con la nonna. Il film accompagna da vicino il quotidiano di questa piccola famiglia, mentre i mesi passano, durante momenti di speranza, attesa e resistenza. I piccoli gesti di tutti i giorni, il bagnetto, il pranzo, le passeggiate lungo i corridoi del carcere rivelano il dramma con cui ogni madre si troverebbe a confrontarsi in una situazione simile, la scelta tra crescere i propri figli, avendoli accanto, ma in prigione, o lasciarli liberi senza di lei, per un tempo della durata indeterminata.
Come sottolineato in precedenza, la cineasta piemontese firma un’opera che non lascia indifferenti,  investendo lo spettatore con uno tsunami di emozioni. Il risultato, come avrete modo di vedere con i vostri occhi, è un ritratto intimo e partecipe su maternità, responsabilità e scelte, e sull’energia vitale dell’infanzia, capace di trasformare anche il mondo carcerario. Il tutto restituito con grandissima naturalezza e veridicità, nel pieno rispetto del flusso degli eventi e delle dinamiche umane. La macchina da presa cattura e restituisce, con la Schillaci che dimostra ancora una volta di saper penetrare in punta di piedi nelle vite e negli ambienti, diventando quasi invisibile, attraverso un percorso di avvicinamento non invasivo e di conquista della fiducia di coloro che le hanno affidato il racconto della propria esistenza, o di parte di essa.  Tutto questo emerge da ogni singolo fotogramma che va a comporre la timeline; una timeline alla quale uno o più fruitori potrebbero rimproverare un’eccessiva lunghezza che, insieme alla forte componente claustrofobica del progetto, rende molto spesso la visione insostenibile e asfissiante. Lo stare quasi interamente (tranne qualche sortita) all’interno del reparto e nella cella ne è la diretta conseguenza. Se per alcuni ciò potrebbe rappresentare un limite, al contrario, per noi contribuisce ad aumentare in maniera esponenziale la potenza e il valore del film. Costringere lo spettatore ad affrontare in questo modo l’esperienza audiovisiva, per di più con una macchina da presa costantemente posizionata ad altezza bambino, contribuisce a restituire in pieno l’odissea umana dei protagonisti e ad alzare il livello di catarsi. Di conseguenza, chi guarda può capire ancora di più cosa si prova e cosa significa stare dentro un carcere e per di più con i propri figli piccoli.
Ma Ninna Nanna Prigioniera è anche l’esempio perfetto di come si può non cadere nelle sabbie mobili della cosiddetta “TV del dolore”, quella che da un decennio a questa parte spopola nei palinsesti del piccolo schermo. TV si fa per dire e serve a rendere l’idea su cosa non è e su cosa non propone il film della Schillaci, che per altro ha nel suo DNA un approccio stilistico e formale assolutamente cinematografico. Per evitare di scivolare nella trappola, l’autrice non si lascia mai andare al  compiacimento o alla spettacolarizzazione del dolore altrui, anche nei passaggi più difficili e delicati del film (vedi il pianto disperato di Jasmina dopo che le vengono negati gli arresti domiciliari). Questo fa di Ninna Nanna Prigioniera un’opera di grandissima umanità, dotata di una sensibilità che è sempre più rara da trovare in progetti analoghi, ma allo stesso tempo anche un atto di denuncia nei confronti di un Sistema (quello carcerario) e di coloro che lo gestiscono.

Francesco Del Grosso

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