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Neruda

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VOTO: 7.5

Yo acuso

Dopo la trilogia della dittatura e dopo aver scoperchiato il marcio della chiesa cattolica in El Club, Pablo Larraín mette il dito in un’altra piaga della tormentata storia del Cile, quello della caccia alle streghe, della locale versione del Maccartismo che, in piena guerra fredda, travolse perfino il grande poeta Pablo Neruda, all’epoca Senatore del paese, vittima delle purghe del presidente Gabriel González Videla e costretto alla clandestinità e poi all’esilio. In Neruda, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes 2016, c’è ancora un legame con la trilogia della dittatura, che vede in Videla un anticipatore di Augusto Pinochet, personaggio che peraltro troviamo, in questo film, quale giovane di belle speranze, capitano dei campi di internamento per comunisti: il ragazzo avrebbe fatto carriera. Neruda morirà dopo solo dodici giorni dal colpo di stato dell’11 settembre: i suoi occhi hanno fatto in tempo a vedere l’ulteriore martirio del suo paese, il disfacimento della presidenza Allende che aveva sostenuto. Ipotesi complottistiche vedono la mano del generale golpista dietro la morte del Poeta, di fatto il funerale si svolse sfidando le forze dell’ordine e molti dei suoi partecipanti finirono desaparecidos. Pinochet ordinò inoltre lo sfregio delle proprietà e dei beni dello scrittore.
Già negli anni Quaranta il regime era pervasivo nelle vite dei cittadini, uno stato di polizia, perseguitando gli oppositori politici e perquisendo e controllando anche i loro amici e collaboratori, e creando delle campagne mistificatorie contro i nemici (le città tappezzate di cartelli con la scritta “Neruda traditore”, i titoli dei giornali con lo stesso tono). Larraín ricostruisce quel periodo ma ammantandolo in una dimensione irreale, letteraria, poetica, lontana dalla pura ricostruzione storica. Ci racconta di un bizzarro Neruda che fa conferenze stampa nel suo bagno, che si veste alla Lawrence d’Arabia. Il più importante comunista del mondo, di cui verrà riproposta la sua invettiva “Yo acuso” rivolta contro i suoi persecutori e contro un sistema politico in disfacimento morale (invettiva che non può non ricordarci il famoso corsivo di Pasolini “Cos’è questo golpe? Io so”).
Larraín costruisce il film su due figure contrapposte, con una polifonia delle loro due voci off narranti. Una è quella appunto del Poeta, l’altra è quella del suo persecutore, il prefetto di polizia Oscar Peluchonneau, figura ambigua di uomo della legge, che si sente servitore dello stato anche portando avanti una tradizione famigliare: lo vediamo infatti all’inizio ammirare la statua del padre, Olivier, il fondatore della polizia cilena. Larraín conferisce provocatoriamente dignità a questo personaggio, dandogli il volto fascinoso di Gael García Bernal e il ruolo di secondo io narrante. Il conflitto tra i due personaggi, antitetici, diventa così narratologico, due narrazioni, due scritture, due pensieri contrapposti. Un inseguimento da gatto e topo, da Tom e Gerry, dove il roditore elude beffardamente il felino, e lo fa proprio con la forza della sua scrittura, inviando in missive a diversi destinatari le sue poesie, che vengono poi declamate. La beffa passa anche per il travestirsi da prete, da parte del Vate, per potere in incognito recarsi a fare la bella vita nei bordelli.
Un inseguimento che prende lo stilema da western, da road movie lungo quel paese al contempo martoriato e dall’incredibile fascino paesaggistico. Un paese che, ancora una volta si dice anche in questo film, ha la dimensione di un’isola, una lunghissima striscia di terra compresa tra l’oceano vero e proprio e l’altra barriera rappresentata dalla Cordigliera delle Ande, come una gigantesca onda che incombe in tutta la longitudine. Un paese cantato in entrambe le sfaccettature, tanto da Neruda nel suo Canto General, scritto proprio durante la fuga, tanto da filmmaker come lo stesso Larraín o Patricio Guzmán.
Un inseguimento che con tutti i mezzi, cavallo, motocicletta, tra la nebbia, si conclude nelle lande desolate della regione dell’Araucanía, terra senza tempo, antica culla del popolo Mapuche finito assoggettato e assimilato dal governo cileno, algida, coperta da una coltre di neve interrotta dalle imponenti chiome degli alberi endemici di auracaria. In questo spazio siderale il conflitto metanarrativo tra il Poeta e il suo persecutore si conclude con il congelamento alla Shining del secondo, e con la sconfitta derivante dall’essere a sua volta stato scritto dal primo, dalla sua consapevolezza di personaggio letterario (e cinematografico). Scritta la sua stessa morte, una morte bella, lenta, fredda, decorata di sangue in un ambiente naturale algido. La polifonia narrativa confluisce così in un racconto a due voci che si sovrappongono.

Giampiero Raganelli

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