I dolori della cara, vecchia Disney
La Disney: una vera e propria istituzione che ci ha fatto ridere, piangere, emozionare e diventare grandi con i suoi film – sia di animazione che in live action. La celeberrima (e discussa) casa di produzione statunitense, tuttavia, non sempre ha visto periodi felici. I più maliziosi (e sinceri), ad esempio, potranno affermare che anche il periodo che stiamo vivendo oggi non è dei migliori. Dopo la produzione di modeste pellicole di animazione (fatta eccezione, ovviamente, per Oceania, vero e proprio gioiellino del 2016, così come per i numerosi lavori nati dalla fortunata collaborazione con la Pixar) e di poco convincenti remake in live action di grandi classici del passato, infatti, in molti hanno avuto da ridire circa il suo ruolo di coproduttrice in Star Wars – Gli Ultimi Jedi (2017), giusto per fare un esempio. Non tutti hanno amato, dunque, quel tocco visionario tipicamente disneyano che l’ottavo capitolo della saga ideata da George Lucas ha assunto. Ma tant’è. Al di là di un soggettivo giudizio sul sopracitato lungometraggio, però, ecco che, appena pochi mesi dopo, vediamo in palinsesto un nuovo lavoro, dove una regia visionaria è addirittura fondamentale. Quale regista meglio di Ava DuVernay, dunque, potrebbe ricoprire tale, importante ruolo? Ed è proprio lei ad essere stata ingaggiata dalla celebre casa di produzione fondata nel 1923 da Walt Disney per mettere in scena Nelle pieghe del tempo, tratto dall’omonimo romanzo di fantascienza per ragazzi scritto nel 1959 da Madeleine L’Engle. E, perfettamente integrata nel progetto, la DuVernay ha saputo dar vita ad un lungometraggio che definire, appunto, “visionario” sarebbe decisamente riduttivo.
La storia messa in scena è quella della giovane Meg Murry, figlia di due fisici di fama mondiale e con grandi problemi di autostima, in quanto non sempre accettata dai suoi coetanei a scuola. Suo padre è misteriosamente scomparso da anni e sua madre ha il cuore a pezzi. Sarà il fratello minore Charles Wallace, tuttavia, a presentare alla giovane tre singolari guide celesti che condurranno i due ragazzi – insieme ad un compagno di classe di Meg – in un insolito viaggio “nelle pieghe del tempo”, appunto, alla ricerca del padre scomparso.
Una vera e propria apologia dei buoni sentimenti che – mediante la fantascienza – tratta temi come l’amore per la famiglia, il bullismo e l’importanza di essere sé stessi. Letto così, questo maestoso lavoro della DuVernay sembra piuttosto interessante, potenzialmente valido o, quantomeno, “innocuo”. Solo dai primi fotogrammi, tuttavia, con una messa in scena ed una fotografia posticce riguardanti i momenti ambientati “sulla Terra” già iniziano a vacillare quelle buone speranze iniziali che ognuno di noi ha giustificatamente riposto nel presente film. E le cose, man mano che si va avanti, purtroppo non migliorano. Il principale problema di un lavoro come Nelle pieghe del tempo, infatti, è soprattutto uno script tanto debole quanto fortemente prevedibile, all’interno del quale vi sono presenti anche non poche forzature che altro non fanno che far perdere di credibilità all’intero lavoro. È questo il caso, ad esempio, del personaggio del padre dei protagonisti, il quale, dopo essersi reso conto – a suo dire – dell’importanza della famiglia, al fine di mettersi in salvo è quasi tentato di abbandonare il figlioletto Charles Wallace in quella sorta di non-luogo in cui egli stesso era finito. Così come è il caso della compagna di classe di Meg, la quale non ha fatto altro che bullizzare la ragazza per anni, ma che, alla fine del lungometraggio, improvvisamente, osservandola dalla finestra e percependo una maggiore sicurezza da parte della stessa Meg, le sorride e la saluta con fare amichevole, come se nulla fosse mai successo.
Detto questo, cosa resta da salvare, dunque, all’interno di un lungometraggio come Nelle pieghe del iempo? Indubbiamente, l’interpretazione del giovane Deric McCabe nel ruolo di Charles Wallace, in grado di cambiare registro con incredibile facilità. Su questo non v’è dubbio.
Discorso a parte va fatto, invece, per la regia della DuVernay: visionaria, magnetica, surreale, con immagini ed ambientazioni dai colori psichedelici e scenografie che – ricordando tanto, ma proprio tanto (troppo?) Christopher Nolan – prendono vita man mano che i personaggi si muovono all’interno di esse, rappresenta il vero cavallo di battaglia della Disney all’interno del presente progetto. Eppure, tale elemento non è sufficiente a salvare un intero lavoro, quando altri fattori non funzionano affatto, ma, al contrario, finisce per risultare gratuito, oltre che pericolosamente autoreferenziale.
Diverse domande, a questo punto, sorgono spontanee: dove andrà a finire un’istituzione come la Disney, di questo passo? Quale sarà il suo destino nell’immediato futuro? E, soprattutto, in che modo potrà riprendersi e tornare ad essere la casa di produzione che tanto abbiamo amato? Questo, ovviamente, solo il tempo potrà dircelo.
Marina Pavido