Estasi o tormento?
Può un amore o qualcosa che si avvicina ad esserlo tramutarsi in ossessione? La cronaca di ieri e di oggi ha dato e continua purtroppo a dare una risposta positiva al suddetto quesito, con un sentimento nato per scaldare i cuori destinato, quando sbagliato, a diventare il suo esatto opposto. L’amore nella sua malata e corrotta involuzione è diventato il protagonista di innumerevoli opere letterarie tra cui “My Cousin Rachel”, romanzo del 1951 di Daphne du Maurier dal quale Roger Michell ha tratto la sua ultima fatica dietro la macchina da presa.
La trasposizione cinematografica firmata dal cineasta sudafricano, presentata in anteprima italiana nel fuori concorso della 27esima edizione del Noir in Festival prima dell’uscita nelle sale nostrane con 20th Century Fox, porta per la seconda volta sullo schermo (nel 1952 Henry Koster ne fece un film che segnò l’esordio a Hollywood di Richard Burton nella parte del giovane e inesperto Philip che lo portò dritto alla nomination all’Oscar, ma come miglior attore non protagonista. A impersonare Rachele fu chiamata invece Olivia De Havilland, subentrata a Vivien Leigh) le tragiche disavventure sentimentali di Philip Ashley. Orfano di entrambi i genitori, da piccolo Philip viene allevato dal cugino Ambrose in una tenuta signorile, nelle nebbiose terre della Cornovaglia. Partito per il continente come scapolo convinto, disinteressato alle donne e assorbito dai propri affari, Ambrose scrive a sorpresa di aver sposato nel viaggio una giovane donna conosciuta in Italia. Da allora le lettere diventano rare e le notizie che riportano fanno temere il peggio. Quando Philip apprende che il cugino è morto in Toscana e che la vedova, la cugina Rachel, è in viaggio per l’Inghilterra, si ripromette di accogliere la donna con freddezza e ostilità, pianificando malignamente di farle patire i dolori e le sofferenze che sicuramente ha inflitto al marito fin sul letto di morte. Ma Rachel non sembra l’arrampicatrice spregiudicata dipinta negli ultimi messaggi di Ambrose; spicca invece per fascino e dolcezza. In poco tempo riesce a conquistare l’affetto di (quasi) tutti gli abitanti della casa, compreso quello del giovane Philip, sul punto di ereditare la proprietà.
Chi conosce le pagine del romanzo e le sue evoluzioni già saprà quale destino avrà il rapporto tra i due protagonisti, quanti tormenti e quante estasi ne scaturiranno, ma soprattutto a quali ineluttabili conseguenze porterà coloro che lo hanno consumato. Da questo punto di vista, la mente non può non tornare al controverso Miss Julie di Strindberg. Al contrario, a chi non avesse avuto modo di sfogliare i capitoli del libro della du Maurier lasciamo alla visione del film di Michell il compito di raccontarne l’epilogo. Quest’ultimo, ovviamente, non avrà un lieto fine, poiché le atmosfere via via sempre più morbose che caratterizzano la vicenda ne indirizzano in maniera tragica il percorso narrativo e drammaturgico. Del resto, dall’autrice tanto amata da Alfred Hitchcock, che ne ha preso in prestito ben due romanzi (“Rebecca la prima moglie” e “Gli uccelli”) per farne altrettanti capolavori della Settima Arte, non ci si poteva di certo aspettare una love story con tanto di happy ending. Il risultato non poteva dunque che essere la cronaca di un sentimento andato in frantumi, messo gradualmente e costantemente in discussione da una relazione sempre al limite del vorrei ma non posso da una parte e dal vorrei ma non voglio dall’altra. Nel mezzo un percorso di distruzione e di sospetto che alimenta ardentemente la componente mistery del plot, nelle cui vene scorre la tragedia sentimentale e il thriller morboso.
Con My Cousin Rachel (nella versione italiana semplicemente Rachel), il cineasta sudafricano torna a parlare d’amore, ma come avrete ampiamente intuito non seguendo le traiettorie felici di Notting Hill, piuttosto quelle che hanno dato forma e sostanza alla sua trasposizione de L’amore fatale. Lì il crescente amore mistico e ossessivo di Jed sconvolgeva la vita di Joe, mettendo in crisi il rapporto con la fidanzata Claire. Un triangolo, questo, che per certi versi riporta a quello che qui si viene a creare tra Philip, Rachel e Louise. Qui il calore si tramuta in gelo, i silenzi e gli sguardi non condivisi in “battaglie” psicologiche tra le parti chiamate in causa. Per alimentare tali confronti fisici e mentali, Michell si affida come è giusto che sia alle pagine della scrittrice britannica, alle interpretazioni di buona fattura di Rachel Weisz e Sam Claflin, ma soprattutto alle efficacissime atmosfere opprimenti ricreate dalla fotografia di Mike Eley. Ma nonostante la fedeltà quasi sacrale agli scritti della du Maurier, il regista non riesce tuttavia a restituirne sullo schermo la sapiente costruzione della tensione latente. La trasposizione di Michell è su questo fronte deficitaria, o meglio discontinua nella resa, perché riesce a riprodurne solo a folate la perfetta catena di causa ed effetto che caratterizzava la progressione narrativa della matrice originale.
Francesco Del Grosso