Come se ogni giorno fosse l’ultimo
Tra le visioni più commoventi e struggenti del Far East Film Festival 2015 è impossibile non citare quella di My Brilliant Life, valsa al regista E J-yong il gradino più basso sul podio di una 17esima edizione che ha visto il trionfo agli audience awards di una tripletta tutta sudcoreana (per la cronaca i primi due posti sono andati al dramma post-bellico Ode to My Father di J.K. Youn e a quello in costume The Royal Tailor di Lee Won-suk).
Trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo del 2011 di Kim Ae-ran, il settimo film diretto da E J-yong porta sul grande schermo la triste vicenda di A-Reum, diciassettenne affetto da progeria. È lui a raccontarci in modo sincero la sua vita e quella dei suoi genitori che lo hanno avuto da giovani. Ed è sempre lui a raccontarci delle difficoltà quotidiane legate alla malattia, ma anche delle piccole gioie e soddisfazioni raccolte lungo una strada destinata purtroppo a interrompersi. La storia narrata è di quelle che scaldano e mandano letteralmente in frantumi anche il cuore più gelido. Di conseguenza, la vera impresa è quella di riuscire a rimanere indifferenti anche davanti a un epilogo straziante come quello che va in scena nella macchina durante la notte dell’ultimo dell’anno. Lì le guance e le coronarie vengono seriamente sollecitate quanto basta per dare finalmente sfogo a un pianto che per molti diventa persino liberatorio. Già dalla sinossi, infatti, è facile capire quale sia l’obiettivo primario dell’opera e del suo regista, ossia quello di pungere e accarezzare senza interruzione lo spettatore di turno. Obiettivo, questo, che il regista colpisce al primo tentativo. Sinapsi e occhi degli spettatori vengono, infatti, continuamente presi di mira da un film che punta senza esitazione alcuna alla catarsi del fruitore nei confronti dei protagonisti di questo dramma generazionale e dei loro destini.
Il regista sudcoreano sceglie il punto di vista di A-Reum e per metterlo in quadro si affida a una forma semi-diaristica che scandisce le fasi salienti della sua esistenza, dal concepimento al tristissimo epilogo. Attraverso la scrittura, sua grande passione, il protagonista affronta i giorni che gli restano, vivendo ciascuno di essi come fosse l’ultimo. Ed è proprio attraverso le sue riflessioni e i suoi ricordi che la vicenda prende forma, rimbalzando tra il presente e il passato. La battaglia che si trova a combattere non è più contro una malattia che non dà scampo, ma è incentrata unicamente sul bisogno di lasciare qualcosa nei suoi genitori. Quest’ultimi diventano l’altro baricentro al quale si appoggia lo script per stratificare il plot, allargandone gli orizzonti drammaturgici. E J-yong ci mostra come un padre e una madre affrontano il dolore immenso di una perdita, cercando il modo migliore di stare accanto al proprio figlio sino all’ultimo respiro. E la mente non può non tornare al meraviglioso La guerra è dichiarata.
A conti fatti, My Brilliant Life ha il merito di parlare di una malattia della quale il cinema non si mai occupato veramente. Quello che rimane è un toccante inno alla vita che evita di scivolare nel guado del patetismo, ma che non sfugge però a quello del buonismo. Il concentrato di sentimenti e scene strappalacrime ha permesso all’opera di E J-yong di abbattere senza particolari difficoltà le difese immunitarie di gran parte degli spettatori che hanno avuto la possibilità di vederlo, compresi quelli intervenuti durante la penultima giornata della kermesse friulana. La regia sobria e le intense performance dei tre protagonisti restituiscono naturalezza all’opera, frenandone purtroppo solo in parte le suddette derive.
Francesco Del Grosso