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Music

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VOTO: 6

Tra passato e presente

Le opere della regista tedesca Angela Schanelec (ormai di casa alla Berlinale) hanno da sempre diviso il pubblico. Questo è un dato di fatto. Indubbiamente pregne di simbolismo e di significato, tali opere si distinguono innanzitutto per un approccio “estremo”. Talmente estremo che, a volte, potrebbe addirittura essere considerato gratuito. Questo, dunque, è il caso anche di Music, la sua ultima fatica, presentata in anteprima mondiale in corsa per l’Orso d’Oro alla 73° edizione del Festival di Berlino.

Come già possiamo intuire dal titolo, dunque, in Music è la musica stessa a fare da trait d’union tra passato e presente, tra Grecia e Germania, tra le vite di ognuno dei personaggi. Ci troviamo, dunque, inizialmente negli anni Ottanta. Durante una tempesta viene ritrovato da un paramedico un neonato abbandonato. L’uomo deciderà di tenerlo con sé e di allevarlo insieme a sua moglie, dando al bambino il nome di Jon. Gli anni passano, Jon (impersonato da Aliocha Schneider) è ormai un giovane adulto e, durante una gita al mare con gli amici, uccide accidentalmente uno di loro. Una volta in carcere (dove dovrà restare un anno), il ragazzo conoscerà la guardia Iro (Agathe Bonitzer) e tra di loro nascerà una storia d’amore. Importanti rivelazioni, tuttavia, verranno presto a galla.
Ampi spazi aperti che stanno quasi a trasmettere un senso di agorafobia. Piccoli villaggi e suggestive scogliere contrastano con la caotica Berlino. Eppure, tutto sembra sospeso in una dimensione senza tempo. Nonostante il passare degli anni. In Music, Angela Schanelec ha come di consueto giocato su sensazioni e suggestioni scaturiti principalmente da pochi, ma essenziali dialoghi, da lunghi silenzi, da piani sequenza portati volutamente all’estremo, da una fotografia dai colori pastello dove una luce spesso sovraesposta rende difficile per i protagonisti stessi mantenere una certa lucidità.
In Music ogni evento, ogni personaggio è indissolubilmente legato all’altro, non c’è azione senza conseguenza, non c’è colpa che non venga, in qualche modo, espiata. Al contempo, le musiche di Pergolesi, di Bach e di Monteverdi assumono quasi delle connotazioni “mistiche” e ci accompagnano – soprattutto durante la seconda parte del film – con il loro potere salvifico.
Tutto studiato fin nel minimo dettaglio, dunque. Ma allora, come mai questo lungometraggio di Angela Schanelec proprio non convince fino in fondo? Il problema è quello già inizialmente menzionato, ossia una evidente autoreferenzialità di fondo che si traduce in scelte forzate e situazioni portate all’estremo che altro non fanno che far perdere l’intero lungometraggio di credibilità. Peccato. Soprattutto perché le idee ci sono, la sostanza anche. E un lavoro di tale portata, complesso e stratificato quanto basta, avrebbe potuto senz’altro avere un forte, fortissimo impatto emotivo su pubblico e critica.

Marina Pavido

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