Certi fantasmi
Dura la vita nella remota provincia ungherese. Soprattutto se sei un giovane studente universitario di teologia, hai un padre pastore protestante che vuole impostare la tua vita da cima a fondo e soffri fondamentalmente di una profonda solitudine. Logica conseguenza il comparire di disturbi nervosi che fanno ricoverare il protagonista per qualche tempo in una clinica specializzata. E siamo solo all’introduzione del film. Che Mózes, il pesce e la colomba sia un’opera pensata e realizzata in un paese dell’Est europeo – l’Ungheria, appunto – lo si nota da tutta una serie di relazioni simboliche presenti nel lungometraggio della giovane esordiente Virág Zomborácz, a collegare persone, animali e persino oggetti. Un pesce pescato ma chiuso in bottiglia perché non si trova cuore di ucciderlo; una colomba che non vola a simboleggiare al contrario la mancata ascesi dell’anima al termine di un funerale. Un quadro generale di nature morte solo apparentemente, pronte ad animarsi per puro istinto vitale. Anche nel caso del fantasma del padre, il quale defunge poco dopo il ritorno a casa di Mózes dalla degenza nella struttura sanitaria.
Quello messo in scena dalla poco più che trentenne regista magiara è un singolare racconto di formazione inserito in un contesto stralunato, con tutti i personaggi affetti da particolari fisime che cercano un qualcosa che possa farli evadere da un contesto esistenziale estremamente monotono, alla ricerca più o meno disperata – e questa disperazione emerge tra le righe di un discorso che altrimenti sarebbe solo caricaturale – di una felicità che pare un miraggio irraggiungibile ed è invece a portata di mano, a patto di vivere la realtà e non in un vagheggiamento di sogni impossibili. Mózes, novello Buster Keaton in un mondo per lui estraneo, deve attrezzarsi in primo luogo a comprendere le dinamiche sociali che lo animano. Per poi risolvere una volta per tutte l’estenuante conflitto edipico che lo tormenta, prima nella vita reale e in un secondo momento nella sua testa. Affronterà dunque quell’enigma in apparenza irrisolvibile chiamato sesso, mediante il rapporto con una tanto disinibita quanto problematica ragazza locale. Prenderà in eredità il centro di recupero creato dal padre, portandolo involontariamente (?) alla distruzione a seguito di un incendio scoppiato durante la rappresentazione uno spettacolo per bambini sulla natività in cui lui stesso si troverà ad interpretare la parte della Vergine Maria. Forse il momento più alto di un film che usa l’Arte come tappa ineluttabile di crescita – ricordate il finale di Rushmore (1998) di Wes Anderson? – nonché la transessualità, nella finzione metaforica ma non troppo della recita, come strumento per comprendere appieno chi si è e cosa si vuole veramente. Davanti ad un pubblico che diviene spettatore simbolico della definitiva affermazione di un’esistenza sino ad allora ectoplasmatica al pari della figura paterna e forse oltre.
Intellettualmente vivace e ricco di chiavi interpretative, Mózes, il pesce e la colomba trova i suoi limiti nella reiterazione sin troppo sottolineata di determinati aspetti dei personaggi e nel prevedibile finale consolatorio da commedia surreale quale in effetti è; ma Virág Zomborácz possiede una indubitabile sensibilità di tocco e l’attore protagonista Márton Kristóf un’ottima capacità espressiva nel rendere l’assurdità di certe situazioni, almeno dal proprio punto di vista.
Vincitore dell’edizione 2015 del Bergamo Film Meeting – uno tra i tanti riconoscimenti internazionali ottenuti dal film – Mózes, il pesce e la colomba (in originale Utóélet, cioè dopo la vita) merita assolutamente la chance di un recupero in sala da parte di cinefili e non. Se non altro per incoraggiare le nostre altrimenti pigre distribuzioni – sia dato merito, nella fattispecie, a Lab 80 – a riscoprire cinematografie magari geograficamente collaterali ma tuttora di grandissima importanza nell’ambito della Settima Arte.
Daniele De Angelis