Quella fastidiosa sensazione di déjà vu
Essere uno dei nomi più autorevoli della Hollywood dei giorni nostri, essere un regista affermato – così come uno stimato produttore cinematografico – presupporrebbe avere una certa libertà dal punto di vista della creazione di un film. Libertà, questa, che dà anche la possibilità di provare ad ideare anche qualcosa di nuovo. Non necessariamente dal punto di vista stilistico, ma almeno dal punto di vista contenutistico, quello sì. Basterebbe solo volerlo. Il problema, però – nel caso del celebre regista e produttore Garry Marshall – è che la voglia di dare vita ad un prodotto innovativo proprio non c’è. Al contrario, dopo gli iniziali successi cinematografici – primo fra tutti Pretty Woman, che come raramente accade è riuscito a creare una sorta di mito, una favola entrata ufficialmente a far parte dell’immaginario collettivo fin dai primi giorni dalla sua apparizione sul grande schermo – il celebre cineasta hollywoodiano si è saldamente ancorato ad un cinema visto e rivisto, ricco di luoghi comuni e fortemente prevedibile. Questo è stato il caso dei recenti Appuntamento con l’amore e Capodanno a New York, così come è anche il caso di Mother’s Day, il suo ultimo lavoro facente parte di una trilogia – in cui sono compresi i titoli sopra citati – che vede alcune festività annuali (San Valentino, Capodanno e, appunto, la Festa della Mamma) in occasione delle quali i protagonisti troveranno il vero amore e scopriranno quali siano i valori davvero importanti nella vita. Originale, vero? Ma procediamo comunque per gradi.
Una mamma single alle prese con due figli piccoli, con l’ex marito e con la nuova moglie di lui. Due sorelle che, non sentendo i genitori da molto tempo, non sanno come avvisarli circa le loro nuove situazioni sentimentali. Un padre rimasto vedovo alle prese con i primi amori adolescenziali della figlia maggiore. Una venditrice televisiva di successo che ha sacrificato tutto – compreso il rapporto con sua figlia – in nome della carriera. E, infine, una giovane ragazza innamorata del suo compagno, ma terrorizzata dall’idea di sposarlo.
Questo non vuole essere uno spoiler, ma – più che altro – un’ulteriore conferma che ciò che state immaginando circa il finale del film accade davvero. Tutti i conflitti – e tutti rigorosamente nel giorno della Festa della Mamma – si appianeranno, l’amore trionferà su tutto e vissero tutti felici e contenti. Ora, sinceramente, quante volte abbiamo purtroppo visto un lavoro del genere? Tante, addirittura troppe. Sembra quasi che Marshall – così come altri suoi colleghi – non abbia quasi più voglia di pensare a qualcosa di nuovo, ma, forte della convinzione che il grande pubblico sia proprio questo a voler vedere, si limiti unicamente al facile guadagno, avendo tirato i remi in barca ormai da tempo. Forse, addirittura già dopo il successo del citato Pretty Woman.
Questo modo di fare “cinema” fa pensare inevitabilmente ai nostri connazionali Enrico e Carlo Vanzina. Anche loro, come Marshall, hanno messo in scena lungometraggi che, in un modo o nell’altro, hanno fatto epoca, anche loro ormai da anni continuano a dirigere sempre lo stesso film, che ormai non fa neanche più ridere, pregno com’è di imbarazzanti luoghi comuni e facili volgarità. Due diverse società prese di mira ognuna per i propri difetti, un unico momento che – il più delle volte – coincide con qualche evento importante, durante il quale si appianeranno come per magia tutti i conflitti venutisi precedentemente a creare. Con la sola differenza che i prodotti italiani si contraddistinguono per una comicità di gran lunga più volgare.
A nulla è servito un cast stellare – in cui spicca l’ormai attrice feticcio di Marshall, Julia Roberts. A nulla è servito far leva sulle emozioni basilari di ogni essere umano – grazie a momenti strappalacrime con tanto di melodia suonata al pianoforte pronta a partire puntuale per enfatizzare il tutto. Mother’s Day è, in fin dei conti, un film che dà quasi ai nervi, la cui visione ci fa sentire presi in giro e sottovalutati circa le nostre capacità intellettive. Non serve dire altro. Tanto abbiamo già visto tutto.
Marina Pavido