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Motel

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VOTO: 5,5

Nessuno tocchi la mia sedia a rotelle

Parafrasando Vasco Rossi, verrebbe da dire “in questo stupido, stupido motel”, specie qualora si ripensi con più attenzione allo sviluppo alquanto improbabile di certe situazioni, nel grottesco noir dell’esordiente David Grovic. E anche taluni dialoghi possono vantare esiti decisamente sopra le righe. Eppure, dopo aver riportato Vasco Rossi al posto che gli compete nell’immaginario musicale, c’è da dire che, in fondo, l’approccio inconsueto al genere di Motel un suo perché ce l’avrebbe pure: una godibilità riconducibile non tanto alla suspance, troppo schiacciata dal citazionismo diffuso, quanto piuttosto alle atmosfere congelate di uno script che inchioda i suoi personaggi nell’area stessa del motel, quasi fosse un “limbo” obbediente a regole proprie, facendo poi emergere il gusto del “politicamente scorretto” attraverso le caratteristiche peculiari di figure che appaiono, evidentemente, caricaturali fino all’eccesso.

Per capire meglio lo spirito di questo eccentrico thriller/noir, piuttosto sconclusionato ma non privo di spunti accattivanti, si possono riportare alcune dichiarazioni del regista: “Fui immediatamente attratto dall’idea alla base di Motel per via delle similitudini a livello strutturale con il teatro dell’Antica Grecia: la storia rispetta infatti le unità di spazio e tempo caratteristiche della concezione aristotelica di quest’arte. Motel ha tre personaggi principali, e i ruoli secondari sono solamente due. Per questa ragione, abbiamo il lusso di poterci prendere del tempo per esplorare il vissuto di queste persone. A mio avviso, molto spesso non viene dedicato abbastanza tempo a delineare i motivi per cui il pubblico dovrebbe supportare un personaggio oppure odiarlo. Qui, come in una tragedia greca, il nostro protagonista ha dei difetti e delle mancanze. Gli altri due attori principali, invece, si distaccano volutamente dallo stereotipo legato al tipo di ruolo che interpretano. Non ci si aspetta che un boss della malavita come Dragna parli come accade nel film, e il comportamento di Rivka si distanzia molto da quello della classica femme fatale.

Ecco, superata di slancio l’impressione di aver già fatto recensire il film a chi l’ha diretto, prendiamo spunto da tali note per entrare nel vivo del discorso: le intenzioni di base sarebbero quindi ottime, ma, al di là del più che legittimo desiderio di concentrare nell’arco di una notte e in uno spazio abbastanza circoscritto il violentissimo dramma in atto, l’ottica post-moderna con cui è concepito il film tende poi a disperdere in mille rivoli il potenziale di tali scelte.
All’origine di The Bag Man (questo il titolo originale di Motel: un chiaro riferimento al tormentone della misteriosissima borsa, alla quale tutti i personaggi sono in qualche modo legati), distribuito nei cinema statunitensi più o meno un anno fa, vi è uno script che ha subito diversi rimaneggiamenti, fondendo tra loro varie ispirazioni tra cui la più suggestiva pare sia il racconto “La Gatta” di Marie-Louise Von Franz, autrice che in qualità di psicologa è stata una delle ultime allieve di Jung. Non a caso una frase stereotipata come “La curiosità ha ucciso il gatto” si pone come ideale tagline della vicenda, orientando più di una volta i dialoghi tra Jack, lo spaesatissimo killer impersonato da John Cusack con quella versatilità che gli consente di risultare credibile nei più svariati ruoli, e quella donna così provocante e sensuale, Rivka, la cui ambigua presenza si avvale del fascino tutto speciale della brasiliana Rebecca Da Costa, autentica rivelazione del film. Il loro rapporto, fatto di attrazione e reciproci sospetti, ruota attorno al mistero della borsa come anche all’attesissimo arrivo di Dragna, boss spietato e da tutti temuto. L’uomo destinato a completare questo ipotetico triangolo è interpretato peraltro da un De Niro visibilmente divertito, all’idea di incarnare un personaggio capace di passare con naturalezza da azioni incredibilmente violente a dotte e supponenti citazioni accademiche, facenti parti di un eloquio sorprendentemente istrionico.

Il mescolare la vena di Tarantino nei dialoghi e l’atteggiamento amaro, sarcastico dei Coen in altri frangenti dello script quasi mai, però, riesce a creare un mood pienamente convincente per questo thriller atipico. Lo stesso carattere evocativo della location principale, quel motel la cui interminabile notte può rievocare tante altre visioni cinematografiche (dalle feroci uccisioni con annesso coccodrillo di Eaten Alive a.k.a Quel motel vicino alla palude, horror di culto firmato Tobe Hooper, all’ovvio Norman Bates di Psycho), viene sfruttato solo in parte.
Se la narrazione appare a tratti dispersiva, un po’ di sollievo arriva dalle poche figure di contorno. Nani bastardi fanno a gara di stronzaggine con poliziotti corrotti e altri ambigui avventori del motel. Ma è il gestore stesso della struttura, apparentemente inamovibile dalla sua carrozzina, a regalare la frase cult di uno script sempre più eccessivo man mano che si va avanti: “”Nessuno può toccare la mia sedia a rotelle, apparteneva alla mia defunta madre!”
Il fatto che una simile spacconata venga declamata a gran voce dal personaggio di Crispin Glover, sguardo spiritato come ai tempi di Willard il paranoico, rende l’idea del taglio un po’ cialtronesco e al contempo intrigante di questo B-Movie, che con una cura maggiore dello script e dei tempi del racconto avrebbe potuto risultare molto più coinvolgente per il pubblico, cui viene invece regalato solo qualche sprazzo di divertimento.

Stefano Coccia

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