Tutte le virtù del Thor “casareccio”
Ennesima riconferma dello specialissimo e genuino talento di di André Øvredal, Mortal si è aggiudicato al 20° Trieste Science + Fiction Festival la Menzione Speciale del Premio RAI4 TS+FF2020 (andato, per inciso, all’altrettanto ben caratterizzato Post Mortem dell’ungherese Péter Bergendy), con la seguente motivazione: “In un meraviglioso paesaggio scandinavo, il mistero e il soprannaturale irrompono lentamente innescando un viaggio interiore e la fuga di un’insolita coppia dalle minacce degli ottusi inseguitori stranieri. La Norvegia si riappropria con intelligenza e senza complesso d’inferiorità della propria mitologia e il risultato è una sorprendente visione che strappa il mantello patinato all’immaginario dominante nell’universo fantasy dei supereroi nordamericani. Per questi motivi e nella speranza che il regista sia capace di resistere alle sirene Marvel e DC, la menzione speciale RAI4 va a “Mortal” di André Øvredal.”
Lettura assai pertinente e condivisibile, questa. Anche se, per dirla tutta, il cinema dell’autore norvegese ha già dimostrato di non perdere mordente e di non snaturarsi troppo a contatto con le sirene del mondo anglosassone: prima il sorprendente Autopsy e poi il più astuto ma ugualmente curato Scary Stories to Tell in the Dark hanno dimostrato tutta la sua duttilità, nel muoversi tra impulsi macabri e un favolistico, conturbante sense of wonder. Ma a monte delle scelte operate dalla giuria di RAI4 vi è un elemento che ci affascina molto, riscontrabile in misura diversa sia in questa co-produzione internazionale imperniata su miti nordici che nell’ungherese Post Mortem: la maggior brillantezza del cinema di genere europeo, quando è portato a fare i conti con un immaginario autoctono, assorbendo siffatte coordinate storico-geografiche, folcloriche, letterarie e/o mitologiche.
La parabola di André Øvredal comincia così a ricordarci il percorso intrapreso in precedenza da Nils Gaup, altro grande interprete del fantastico di stanza in Scandinavia. Gaup, pure lui di nazionalità norvegese, riuscì a definire una poetica fondata sulle tradizioni del popolo Sami nell’indimenticabile pellicola con cui esordì, L’arciere di ghiaccio (Ofelas, 1987). Il suo tentativo di adattare la fascinazione dei paesaggi artici e un epos arcaico a criteri internazionali, para-hollywoodiani, è culminato poi nella realizzazione di Duello tra i ghiacci (North Star, 1996). Con esiti solo in parte soddisfacenti. Avevamo pertanto salutato con favore il suo (relativamente) recente ritorno ad atavici retaggi lapponi o ad episodi poco conosciuti dell’antica Storia norvegese, vedi rispettivamente Kautokeino-opprøret (2008) e The Last King (2016). Analogamente, dopo la succitata parentesi, André Øvredal è voluto tornare sui suoi passi, recuperando quei tratti specifici della cultura scandinava che ci avevano fatto innamorare, non molti anni fa, del suo Trollhunter. Tuttavia è anche qui un quasi “hegeliano” processo di tesi, antitesi e sintesi, quello che ha portato a Mortal, film in cui il “ritorno alle origini” si tinge comunque di coloriture nuove e prassi produttive diverse.
Un po’ come aveva fatto il finnico AJ Annila con il Kalevala, nel suo Jade Warrior, lo sfrontato André Øvredal cala nella modernità schegge impazzite dell’epos norreno, accanto ad oggetti fortemente iconici come il Mjöllnir. Ma rispetto a simili “riciclaggi” avvenuti nel cinema mainstream stelle e strisce si avverte qui un’esigenza narrativa più forte, ben esemplificata da quel Thor inizialmente inconsapevole, malconcio e abbrutito come l’antieroe di un western crepuscolare, che però cammin facendo ritroverà l’ardore e l’orgoglio di una divinità asgardiana, proprio confrontandosi con le bassezze del mondo contemporaneo. Fino a un epilogo per certi versi maestoso, romantico, ma per niente retorico. Come a dire: qualche bagliore può farsi strada anche nella coda così stanca e opaca del Kali Yuga che caratterizza il nostro presente. Ad arricchire di contrasti la confezione visiva del lungometraggio, André Øvredal non ha rinunciato certo ad inserire la movimentata vicenda in scenari davvero epici, tra fiordi meravigliosi e scorci da lasciare a bocca aperta. Un buon modo, insomma, di utilizzare il differente potenziale produttivo ottenuto grazie alle precedenti, felici esperienze sul set. Alla faccia di chi vorrebbe solo il “Made in Usa” per certe avventure cinematografiche. Ça va sans dire il (neanche troppo) sottile antiamericanismo che caratterizza il plot, per via dei metodi cinici e brutali utilizzati dagli inseguitori del redivivo nume norreno (metodi in cui si adombra persino lo storico livore delle società dominate da religioni monoteiste, nei confronti delle altre forme di culto), va accolto anch’esso con sommo gaudio e, magari, con un beffardo sorriso alla Franti sul volto.
Stefano Coccia