Indennità di trasferta
Pare che il cinema di Jerzy Skolimowski sia ormai di casa al Palazzo delle Esposizioni. Poche settimane fa, sempre su queste pagine, avevamo parlato con entusiasmo della riscoperta di Mani in alto!, film iconoclasta che sancì la rottura dell’irrequieto cineasta con le autorità del proprio paese, proiettato nell’ambito di CiakPolska 2019 in una sezione di “classici” ribattezzata non a caso: Lo sguardo proibito. Cinema e censura nella Polonia del periodo comunista. Girato nel 1967, il lungometraggio in questione proprio per motivi di censura aveva cominciato a circolare solo nel 1981, arricchito peraltro di un prologo in cui confluivano il lucido pessimismo dell’autore e tensioni politiche caratteristiche di quell’epoca.
Quasi a sancire un ideale passaggio del testimone, anche la tradizionale rassegna A qualcuno piace classico programmata come sempre al Palazzo delle Esposizioni, e con diverse edizioni già alle spalle, ha voluto rendere omaggio al geniale regista polacco. Lo ha fatto martedì 17 dicembre riproponendo rigorosamente in pellicola Moonlighting, uno dei capolavori realizzati da Skolimowski nel Regno Unito, sebbene il vertice della sua filmografia resti sempre, a nostro avviso, il precedente The Shout (1978), ossia L’australiano per il pubblico di casa nostra.
In Moonlighting, datato 1982, abbiamo colto per giunta segni di continuità col quasi coevo prologo di Mani in alto!, fosse solo per l’analoga amarezza nel guardare al presente.
Piacevolmente dissonante, eccentrico e disilluso, Moonlighting pare innanzitutto il frutto di un’anima scissa, di uno spirito tendenzialmente apolide, aspramente in disaccordo coi diversi – e ugualmente alienanti – contesti sociali sperimentati in quegli anni. Attraverso la vicenda dei quattro operai polacchi spediti con un escamotage in Inghilterra, per lavorare in nero alla ristrutturazione della seconda casa di uno scaltro burocrate con agganci all’estero, esce fuori l’avvilente affresco (in un fuori campo reso palpabile attraverso pochi sapienti tocchi) di una Polonia comunista che aveva beneficiato di qualche tiepida apertura, per cadere poi nuovamente nella morsa dei più retrivi apparati di partito e della feroce repressione militare, attuata con l’avvento al potere del generale Jaruzelski. Ma anche il ritratto dell’Inghilterra anni ’80, così austera, poco solidale, deformata pure a livello antropologico dalle oppressive politiche sociali della signora Thatcher, è un rovescio della medaglia che cinematograficamente lascia segni robusti sulla pellicola.
Tre degli operai, interpretati da attori polacchi spinti dal regista a rivolgersi poche ed essenziali parole nella loro lingua, con il loro non parlare l’idioma del luogo dove saranno costretti a vivere e lavorare, in condizioni di emergenza, per un mese esatto, rappresentano bene il primo livello di alienazione. Ma poi c’è il caposquadra. Quello scelto dal loro ricco compatriota per fare da tramite con il mondo circostante, visto che un po’ di inglese lo sa. Ed in tale ruolo ritroviamo un giovane, sorprendente Jeremy Irons, capace di interiorizzare in profondità lo spaesamento del personaggio e al contempo di interagire disinvoltamente, a livello fisico, con un set che appare in continuo divenire. Proprio come lo “sgarrupato” appartamento da ristrutturare. Perché qui, come in molte altre opere di Skolimowski, l’analisi fredda, cerebrale e generalmente negativa della realtà si fonde alla perfezione con una forte densità materica, avvertibile in ogni inquadratura.
Le disavventure dei quattro polacchi in territorio britannico si colorano ben presto di un umorismo beffardo, quasi “slapstick” nelle conseguenze fisiche di certe azioni, quotidiane e al tempo stesso dagli esiti imprevedibili, dando luogo a un’atmosfera da teatro dell’assurdo che pare contagiare ogni elemento della messa in scena. A fare da fulcro del racconto è ovviamente il personaggio di Jeremy Irons, intorno al quale si sviluppa anche una poetica del controllo, della scarsa libertà di movimento, che assume contorni paradossali se si pensa al suo ruolo di “guardiano” dei propri compagni e al parallelo proliferare di sguardi inquisitori, da quelli di qualche sospettoso doganiere in aeroporto per approdare poi alle implacabili videocamere di sorveglianza dei supermercati occidentali. L’ironia che si genera dall’intrecciarsi, tragicomico, di simili punti di vista, ha una ferocia del tutto giustificata dalla cornice sociale e risulta davvero impagabile nella sua resa filmica.
Stefano Coccia