La cosa giusta da fare
È una notte come tante altre a Brooklyn ma all’angolo di una strada nel quartiere di Bed-Stuy, un uomo di colore disarmato viene ucciso dopo una lite con le forze dell’ordine. L’episodio è il punto di partenza di una complessa indagine, che vede coinvolto un distretto di polizia e un quartiere dove vive una comunità di persone strettamente unite tra loro. Nella vicenda sono implicati anche un testimone oculare che ha ripreso l’aggressione con il suo smartphone, un ufficiale di polizia e un giovane studente promessa del baseball. Attraverso i loro occhi, arriveremo a comprendere in profondità una comunità in fermento a causa di tensioni razziali, che lotta per un futuro migliore.
È questo passaggio di testimone tra i tre protagonisti di turno con i rispettivi punti di vista sugli accadimenti la spina dorsale di Monsters and Men, opera prima di Reinaldo Marcus Green, già vincitrice del Premio Speciale della Giuria all’ultimo Sundance Film Festival e presentata nella Selezione Ufficiale della 13esima edizione della Festa del Cinema di Roma prima dell’uscita nelle sale nostrane con Videa. La suddetta architettura narrativa e drammaturgica viene alimentata dalle soggettività dei personaggi e dal modo in cui questi, seguendo le rispettive posizioni ideologiche in merito all’episodio incriminato, prendono le proprie decisioni. Quello dell’esordiente newyorchese è un film sul bivio come metafora per raccontare come e il perché di una scelta. Tutte le figure che la animano sullo schermo, indipendentemente dalla posizione in cui si trovano e dal ruolo che ricoprono nella società odierna, sono alle prese con una tensione interna con la quale devono fare i conti per decidere se agire schierandosi oppure girarsi dall’altra parte restando in silenzio.
E sta tutta qui la differenza tra Monsters and Men e una pellicola gemella come può essere ad esempio The Hate U Give di George Tillman Jr. Entrambe puntano i rispettivi obiettivi sulla questione razziale e più specificatamente sull’uso della violenza da parte delle forze dell’ordine ai danni di afroamericani e minoranze etniche. Lo fanno seguendo traiettorie diverse, ma a conti fatti a cambiare sono gli addendi non di certo la sostanza e il cuore tematico del discorso. Ciascuno a proprio modo gravitano e si sviluppano intorno al medesimo nucleo. Il primo scompone triplicando i punti di vista ai quali corrispondono altrettanti macro-segmenti della timeline, mentre il secondo punta esclusivamente su uno, ossia quello di Starr, una sedicenne che vive nel quartiere popolare di Garden Heights e che, suo malgrado, sarà l’unica testimone oculare dell’ennesima morte di un ragazzo di colore per mano di un agente di polizia. Nel film di Tillman le emozioni diventano il traino che consente all’opera di intercettare l’attenzione dello spettatore, quanto basta per coinvolgerlo attivamente sino all’epilogo. Green, al contrario, le emozioni le cristallizza per farle affiorare solo di rado (il confronto verbale tra Zyric e suo padre sul pianerottolo e la cena di Dennis con gli amici di famiglia), puntando solamente sui fatti e sulle psicologie dei personaggi, qui ben interpretati da un promettente terzetto formato da John David Washington, Kelvin Harrison Jr. e Anthony Ramos. Un approccio alla materia agli antipodi rispetto a quello del connazionale che raggela tutto, rilegando il fruitore in una posizione di passività.
Francesco Del Grosso