Parto mostruoso
Che Raman Hui sia il “padre genetico” di Shrek, supervisore dei primi due capitoli e co-regista del terzo, lo si intuisce con una certa facilità. Posizionando la sua ultima fatica dietro la macchina da presa dal titolo italiano Il regno di Wuba (titolo internazionale Monster Hunt, titolo originale Zhuo yao ji) sotto la lente d’ingrandimento, infatti, è possibile individuare tracce piuttosto evidenti del suo modo di fare e concepire la Settima Arte. Il tocco, lo stile, il disegno dei personaggi e il modo di raccontare la storia, portano indubbiamente – come avremo modo di vedere – il suo inconfondibile marchio di fabbrica, anche se la trilogia dedicata alle (dis)avventure del celebre orco verde sono su un livello decisamente più alto.
Prossimamente nelle sale nostrane con la rediviva Minerva, cavalcando l’onda degli straordinari incassi ottenuti in madre patria e della buona accoglienza ricevuta alla decima edizione del Festival di Roma, la pellicola si presenta come un cocktail godibilissimo di divertimento a buon mercato per grandi e per piccini. Entrambi possono lasciarsi andare allo spettacolo offerto sul grande schermo dal regista hongkonghese, sbarcato già da alcuni anni oltreoceano alla corte della Dreamworks Animation, qui alle prese con un fantasy in salsa wuxia che segna contemporaneamente il suo esordio in un film in lingua cinese e nel live action. Queste due novità non sembrano averlo spaventato né impensierito più di tanto; al contrario, il risultato ottenuto sia in termini di riscontro al box office che per quanto concerne la resa finale non esalta, ma non delude totalmente le aspettative. Raman Hui mescola personaggi animati a volti noti in carne e ossa del cinema orientale (Tang Wei, Bai Baihe, Eric Tsang, Jing Boran). Il risultato è un’interazione tra pixel ed epidermide che concede alla platea momenti spassosi (uno su tutti il tentativo di trasformare il neonato re mostro in una pietanza da servire a tavola durante il banchetto) e persino degli imprevisti siparietti canterini-danzereschi che fanno da contraltare a quelli d’azione più o meno riusciti. Le coreografie marziali non sempre appaiono efficaci, ma quando funzionano (vedi il combattimento nella locanda, quello nella tromba dell’ascensore o il tutti contro tutti nel Ristorante Paradiso) lo spettacolo è garantito.
Certo l’originalità non è il piatto forte del menù, ma lo show di evoluzioni pirotecniche e la maionese impazzita di battute al fil di cotone e situazioni ricche di humour che lo condiscono, consentono alla timeline di procedere in maniera spedita e senza particolari intoppi verso il suo epilogo. In Monster Hunt, gli umani guerrafondai arrivano in un mondo fantastico governato dai mostri, conquistano il regno e confinano i mostri verso le montagne. Da allora, ai mostri è proibito rimettere piede nel regno, pena la cattura e l’uccisione. Per anni le due razze hanno vissuto in mondi separati, fino a quando la nascita di un nuovo re mostro mette in discussione gli equilibri di potere. Insomma, l’ennesima storia di difficile convivenza tra esseri umani e mostri, con i secondi costretti a prendere le sembianze dei primi per poter sopravvivere sul Pianeta Terra (Men in Black vi dice qualcosa?). In tal senso, la sinossi è già di suo la cartina tornasole di un’opera che preferisce raccogliere e assemblare cose già viste pescate nell’archivio dei generi di riferimento, piuttosto che imboccare strade alternative o provare a lanciare sullo schermo pennellate personali. Di conseguenza, coloro che sono abituali frequentatori della materia, in particolare delle cinematografie asiatiche e dei festival che le ospitano (uno su tutti il Far East Film Festival di Udine), troveranno nel film di Hui più di un dejà vu. Questo perché Monster Hunt si appoggia in tutto e per tutto a uno schema collaudato e piuttosto logoro. Nonostante questo riesce comunque a reggere il peso delle quasi due ore di proiezione.
Francesco Del Grosso