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Miss Julie

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VOTO: 7.5

Il triangolo no

Ci si interroga sempre sul cosa possa spingere un o una regista a confrontarsi con un grande classico che è già stato oggetto di svariati adattamenti nell’ambito delle diverse Arti. Miss Julie è uno di questi. La tragedia naturalistica in un atto unico composta da August Strindberg nel 1888 ha, infatti, ispirato nei decenni successivi centinaia, se non migliaia, di autori a tutte le latitudini. Se a livello teatrale stabilire un numero esatto di rappresentazioni, a iniziare dalla prima andata in scena nel marzo del 1889 al Teatro Sperimentale Scandinavo di Copenaghen, è impresa ardua, al contrario, sul fronte cinematografico le trasposizioni si contano sulle dita di una mano e portano la firma di Alf Sjoberg, Mike Figgis e Michael Margotta. Ultima in ordine di tempo a misurarsi con le pagine dello scrittore svedese è Liv Ullmann, che per la sua nuova regia ha scelto di puntare proprio su uno dei testi più incandescenti, stratificati, controversi e complessi, nella storia della letteratura, oggetto di uno scandalo clamoroso nella società puritana e conformista dell’epoca. A distanza di quattordici anni da L’infedele, la regista e attrice norvegese torna nelle sale con il suo Miss Julie, premiere allo scorso Toronto Film Festival e in anteprima italiana alla sesta edizione del Bif&St, dove la pellicola è stata presentata in concorso nella sezione Panorama Internazionale.
Quando si decide di misurarsi faccia a faccia con un’opera simile, da un punto di vista strettamente produttivo, fascinazione e rischio vanno senza ombra di dubbio a braccetto. Quello di Strindberg è uno di quei testi che farebbero tremare i polsi a chiunque, ma la Ullman è autrice di grande esperienza, tanto davanti quanto dietro la macchina da presa, e il risultato ottenuto le darà ragione. Per riportarlo sul grande schermo sceglie la fedeltà alla matrice originale, apportando a questa qualche ritocco che non ne muta la forma e la sostanza. La vicenda è arcinota per cui evitiamo di ritornare sui suoi passi, per concentrarci invece sull’approccio alla materia da parte della regista, che sposta l’azione da una villa nobiliare ottocentesca di stile neoclassico situata in una cittadina svedese a una tenuta di campagna posizionata da qualche parte nel cuore verdeggiante dell’Irlanda. Siamo ancora in una notte di mezza estate destinata a tingersi di sangue alle prime luci del giorno, una notte che vedrà un triangolo amoroso del lui, lei e l’altra, tramutarsi in una sorta di vaso di Pandora che una volta scoperchiato darà il via a una feroce battaglia per il potere e il controllo, condotta attraverso un gioco crudele e convulsivo, in perenne equilibrio fra seduzione e repulsione. Teatro di questa mattanza sentimentale, umana, esistenziale e sociale, restano le grandi stanze del palazzo, con le cucine che diventano il crocevia di tre destini che si incroceranno in maniera fatale. Nonostante il cambiamento di ambientazione e di contesto, il racconto resta incentrato sulle discrepanze della Società e sulle posizioni spesso contraddittorie di un’aristocrazia che si sta indebolendo, con una classe medio-bassa che, a sua volta, desidera assurgere a borghesia. L’opera affronta la tematiche dell’interazione tra classi differenti e tra il genere maschile e quello femminile, incontro che porta alla difficile comprensione di sensibilità e condizioni profondamente distanti.
Per il suo adattamento, la Ullmann punta su un claustrofobico kammerspiel dall’impianto teatrale, filmato cinematograficamente attraverso un uso delle focali, dei movimenti di macchina, degli spazi e dei corpi. Trasforma quegli spazi e quei corpi in trincee dove si fronteggiano a turno un uomo e due donne a colpi di parole, amplessi, menzogne, mezze verità, pressioni psicologiche e fisiche, ricatti morali e minacce. Nessuno ne uscirà indenne. Il morboso triangolo viene affidato al trio formato da Jessica Chastain (Miss Julie), Samantha Morton (Kathleen) e Colin Farrell (John), con le prime due che fagocitano e sovrastano a livello di recitazione e interpretazione il terzo. Una lotta impari, ma comunque avvincente, tesa come una corda di violino, che tiene incollati alla poltrona gli spettatori, nonostante questi conoscano il partenza quale sia l’epilogo.

Francesco Del Grosso

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