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Mike Nichols, il Tempo era adesso

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Un ricordo di Mike Nichols

Ci sono stati nel corso dei decenni, a Hollywood e dintorni, registi genialmente accentratori e altri discretamente decentratori. I primi – John Ford e Stanley Kubrick, solo per fare qualche  illustre esempio – sono riusciti a catalizzare l’attenzione di tutti sulle meraviglie, tecniche e di contenuto, del loro cinema; gli appartenenti alla seconda categoria sono stati in grado di rendere i loro film una cosa “altra”, uno strumento utile ad analizzare attraverso di essi lo spirito delle epoche in cui sono stati realizzati. Michael Igor Peschkowsky, origini famigliari russe e meglio conosciuto con il nome d’arte di Mike Nichols, va senza dubbio annoverato in questa seconda schiera. Un autore, insomma, non da Olimpo degli Eletti, ma piuttosto da ipotetica biblioteca, adatto ad uno studio approfondito in luogo di una venerazione incondizionata.
Del resto dici Sessantotto e il pensiero corre ad un’epoca che la nostra generazione e quelle successive non hanno vissuto, ma di cui hanno fortemente sentito parlare. I moti di piazza, le proteste per emancipazioni complete a livello razziale, sessuale, giovanile. La contestazione al capitalismo e ai regimi nominalmente di destra e sinistra. Il Vietnam. La politica istituzionale stordita e in affanno in qualunque paese. Soprattutto nel più grande, in molti sensi: gli Stati Uniti. Il cinema, ovviamente, non può far finta di nulla. E uno dei manifesti di un’epoca per troppi versi irripetibile è stato proprio Il laureato (1967) diretto dal signor Mike Nichols. A rivederlo ora, dal punto di vista cinematografico, ha messo su qualche ruga. Alcune ingenuità narrative fanno rispettosamente sorridere. Ma dentro c’è tutto. Proprio tutto. Il viscerale attacco a quella che veniva considerata la culla di ogni male (anche ora?), ovvero la borghesia benpensante. Dustin Hoffman giovincello universitario che cade nella trappola ma poi grida al mondo il proprio disagio. Gli zoom a elettrizzare il film come una continua scossa elettrica. La maschera straordinaria e inimitabile di Anne Bancroft, riflesso nitido di arroganza e potere. L’immortale colonna sonora di Simon & Garfunkel, sospesa tra rabbia per un presente rubato e la malinconia di un ricordo appena sfuggito dalle mani. Quasi nessuno ricorda i quattro Oscar vinti (miglior film, miglior regia di Mike Nichols, migliori attori protagonisti Dustin Hoffman e Anne Bancroft), tutti rammentano bene lo spirito di quel Tempo, quasi sentendone il sapore senza essere stati presenti.
Per un altro titolo fondamentale della filmografia di Nichols è necessario attendere solo quattro anni. Arriva l’alba dei settanta, decennio che ha rappresentato l’ovvia prosecuzione del precedente. Dopo la rabbia, l’immediato riflusso. La crisi. L’unità che si interrompe. Amicizie che parevano eterne, aggregate da ideali di forza inaudita, finiscono. Conoscenza carnale (1971) racconta di questo. Del sesso come (amara) presa di coscienza di cosa si sperava di essere e invece di cosa si diventerà. Jack Nicholson al meglio, non ancora istrione ai massimi livelli. Le bellissime Ann-Margret e Candice Bergen, non solo esteriorità. Art Garfunkel attore. Ancora il profumo di un’Epoca, adesso piacevole anche quando, sul momento, abbastanza maleodorante. Del resto Mike Nichols ha spesso messo in discussione, nelle opere realizzate attraverso gli anni, l’impalcatura sociale a stelle e strisce. Quasi sempre mescolando commedia e dramma, in modo tale da renderli un corpo unico, indistinguibile. L’impegno civile nel rendere nota la vicenda umana di Karen Silkwood nel film omonimo (1983), con una grande Meryl Streep. Oppure i rapporti sentimentali senza via d’uscita, colmi di isterismi e risate forzate da sit-com di Heartburn – Affari di cuore (1986), con la coppia d’oro Streep/Nicholson. L’affettuoso racconto di formazione del sottovalutato Frenesie…militari (orrido titolo italiota del ben più evocativo Biloxi Blues, 1988), arricchito da una tanto vigorosa quanto sussurrata critica all’istituzione militare in tempo di guerra. La commedia di costume Una donna in carriera (1988), con echi della Hollywood dei tempi d’oro e facili sovrapposizioni tra Melanie Griffith finta svampita alla Marilyn Monroe, Harrison Ford in un ruolo alla Cary Grant e Sigourney Weaver a sembrare Bette Davis. Quasi una copia di lusso, perfettamente aggiornata.
Ancora tanto altro – nonostante le difficoltà a lavorare in un’industria molto distante da quella degli esordi – sovente non memorabile ma sempre all’insegna di un mestiere ineccepibile, fino all’ultimo La guerra di Charlie Wilson (2007), satira tutt’altro che definitiva sugli sporchi giochi della politica statunitense. Ma forse i tempi erano già cambiati da un po’. E non era certo colpa del cantore cinematografico se da parecchio si correva a perdifiato verso un’omologazione socio-culturale senza ritorno. Per questo motivo, probabilmente, Mike Nichols si è spesso dedicato al suo grande amore, il teatro. Dove scorre la vita vera in presa diretta, refrattaria alla modernità. Senza troppi artifici, molteplici ciak e ritocchi in post-produzione.

Daniele De Angelis

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