La legione dei (capo)dannati
C’era grande attesa al XXV Noir in Festival di Courmayeur per il nuovo lavoro di un regista di culto come Álex de la Iglesia, che nel corso degli anni è diventato, per chi ve ne sta ora parlando, un imprescindibile punto di riferimento. Al termine della proiezione sensazioni contrastanti, riassumibili nel fatto di essere rimasti soddisfatti a metà. Non si è di certo approdati a quella folle genialità, in apparenza scriteriata e comunque carica di senso, di folgoranti intuizioni narrative, che aveva caratterizzato alcune delle sue ultime produzioni cinematografiche, Ballata dell’odio e dell’amore (Balada triste de trompeta, 2010) e soprattutto Le streghe son tornate (Las brujas de Zugarramurdi, 2013). Ma pur tornando un po’ scontatamente alla critica dell’apparato televisivo (e delle deformazioni antropologiche di cui si fa carico) già vigorosamente espressa in La chispa de la vida, o nel precedente Muertos de risa, anche questo sulfureo, picaresco divertissement colleziona alcune stilettate che vanno a bersaglio.
Se Marco Risi nel 1998 ci aveva raccontato, sempre in forma paradossale, L’ultimo capodanno, quello rappresentato da Álex de la Iglesia sembrerebbe un Capodanno eterno. Per giunta fuori stagione. Sì, perché l’infernale sarabanda da lui ideata prende le mosse da una trasmissione televisiva estremamente kitsch, la cui messa in onda sarebbe prevista proprio per Capodanno, ma che in realtà viene registrata molto tempo prima.
Gli sconfinamenti nell’assurdo sono dovuti sia a una violenta manifestazione fuori dagli studi televisivi, dovuta proprio all’eccessivo numero di licenziamenti nell’emittente pubblica, sia alla formidabile catena di imprevisti che sembrano rendere quasi impossibile, a un certo punto, il completamento delle registrazioni. E così cantanti viziati e megalomani, coppie di presentatori in lite tra loro, tecnici sull’orlo di una crisi di nervi e comparse con le più svariate attitudini, poste comunque a festeggiare artificiosamente un 2016 ancora lontano davanti a polli di plastica e finti calici di spumante, si ritrovano ad affrontare tutti insieme i folli, iperbolici accadimenti che investono lo squinternato set televisivo.
Il linguaggio cinematografico utilizzato da Álex de la Iglesia in Mi gran noche è, sin dai titoli di testa, quel linguaggio ultra-pop dai cromatismi esasperati cui il cineasta iberico ci ha piacevolmente abituato, funzionale qui a far emergere in maniera divertente ed eccessiva tutto lo squallore dell’oggetto messo in discussione, ovvero l’inesauribile e sempre più pacchiana fabbrica dell’intrattenimento televisivo.
Nella fitta aneddotica di cui si compone il film, nell’altrettanto vasta galleria di personaggi (c’è spazio, tra i tanti interpreti che vanno a mille, anche per il fedele “compagno di merende” Santiago Segura, autore a sua volta delle parodiche avventure del Commissario Torrente), l’impressione che qualcosa giri a vuoto c’è. Ma come al solito il vulcanico film-maker spagnolo riesce sempre a inventarsi qualche gag, qualche sequenza sopra le righe, in grado di stampare sulle facce degli spettatori più complici lo stesso sorriso di Franti nel libro Cuore.
Stefano Coccia