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Menocchio

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VOTO: 7.5

Non è un paese per eretici

Menocchio è un vecchio mugnaio che vive insieme alla sua famiglia a Montereale Valcellina, sulle pendici dei monti del Friuli. Egli è un uomo che a malapena sa leggere e scrivere, ma che da sempre si è contraddistinto per la sua acuta intelligenza e per il suo spiccato spirito critico. Al punto da ottenere, oltre a numerosi consensi, anche una certa attenzione da parte della Chiesa Cattolica.
Siamo nel 1500, in Italia, e questa è la singolare storia di un uomo considerato ingiustamente eretico. La storia di Domenico Scandella, detto Menocchio, che il documentarista italiano Alberto Fasulo ha voluto mettere in scena, utilizzando per la prima volta un linguaggio per lui tutto nuovo e presentando questo suo importante lavoro – Menocchio, appunto – in concorso al Festival di Locarno 2018.

il regista di Tir (2013), dunque, già di casa a Locarno dopo aver presentato fuori concorso nel 2015 il documentario Genitori, da sempre affascinato dalla figura dello stesso Menocchio (personaggio più che mai attuale, dal respiro addirittura universale), ha optato questa volta per il lungometraggio a soggetto, compiendo un lavoro sui personaggi e sulla luce tutt’altro che facile o scontato. Per l’occasione, il volto del protagonista è diventato quello di Marcello Martini, anch’egli, come il resto del cast, “preso dalla strada” (l’attore è, in realtà, un ex impiegato dell’Enel, da poco in pensione), anch’egli perfettamente in linea con le ambientazioni ricreate, le quali ci mostrano un’Italia del Cinquecento principalmente rurale, dove l’alfabetizzazione era cosa più unica che rara e dove la Chiesa, unica istituzione ad avere realmente voce in capitolo, si sentiva pesantemente minacciata dalla contemporanea Riforma Protestante, al punto di sentire il bisogno di punire severamente – anche, dove necessario, con un’esecuzione – chiunque osasse mettere in discussione le parole delle Sacre Scritture.
Gli ambienti mostratici sono, di conseguenza, angusti, bui, al punto da emanare quasi un senso di claustrofobia, dove sembra non esserci alcuna via di scampo e dove il rinnegare le proprie idee può essere l’unica soluzione al fine di avere salva la vita (particolarmente d’impatto, a tal proposito, l’affermazione “Mi hanno ucciso”, pronunciata dallo stesso Menocchio durante una visita di sua moglie in carcere). Dal canto suo, Alberto Fasulo ha scelto di dedicare la massima attenzione agli stessi personaggi, mantenendo una macchina da presa molto ravvicinata e optando per frequenti primi piani intervallati, di quando in quando, da primissimi piani e mezze figure. Il tutto, con una luce che – anche a detta dello stesso autore – tanto sta a ricordare i dipinti di Rembrandt (di poco successivo, tra l’altro, alla vita dello stesso Menocchio). Nulla volendo togliere, dunque, alla cura per l’intero lavoro, il vero fiore all’occhiello di tutto il lungometraggio è rappresentato probabilmente da una scena onirica, immediatamente precedente il finale, dove una serie di inquietanti personaggi, indossanti maschere della tradizione friulana, appaiono in sogno al protagonista, intimandogli di abiurare le proprie affermazioni.
Fatta eccezione, dunque, per un primo piano finale dello stesso Menocchio che va a terminare con una dissolvenza al bianco (e che, a tratti, può risultare esagerato e un tantino autocompiaciuto), questo ultimo lavoro ci mostra un Alberto Fasulo straordinariamente maturo, addirittura maturato, con un’ottima padronanza del mezzo cinematografico e, probabilmente, molto più a proprio agio rispetto a come l’abbiamo visto nell’ambito del documentario. Che sia questa, dunque, la sua strada?

Marina Pavido

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