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Meander

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VOTO: 6

Percorso a ostacoli (mortali)

Serpeggiare, snodarsi o andare a zigzag, è quello che è costretta a fare la protagonista di Meander, seconda fatica sulla lunga distanza del talentuoso Mathieu Turi, presentata al 20° Trieste Science + Fiction Festival, laddove il cineasta francese è tornato (virtualmente) a tre anni di distanza dalla calorosa accoglienza ricevuta alla kermesse giuliana dalla sua opera prima, il survival-horror post-apocalittico Hostile. Il film vede al centro della vicenda Lisa che, dopo aver accettato un passaggio da uno sconosciuto, si risveglia in un labirinto pieno di cunicoli. Al polso ha un braccialetto con un conto alla rovescia. Trappole mortali si annidano ad ogni svolta e Lisa non ha altra scelta che strisciare lungo il cunicolo per cercare di salvarsi, affrontando al contempo il doloroso ricordo della figlia morta. Chi l’ha imprigionata? E perché? E come uscirne viva?
Ovviamente non saremo noi a darvi le risposte a queste domande, perché il compito di fornirle spetta alla visione dei 90 minuti di questo thriller fantascientifico dalle venature horror, in cui Turi dimostra ancora una volta di sapere mescolare i generi, ma soprattutto di avere nel proprio bagaglio una notevole capacità di modulare la temperatura della tensione al fine di tenere incollati alla poltrona gli spettatori di turno. Per farlo si appoggia alle accelerazioni di ritmo dettate dall’innesco delle varie trappole in cui Lisa rischia di volta in volta di annegare o di essere stritolata, soffocata, squagliata e congelata viva, mutilata, tritata, disintegrata e persino sbranata da un essere non meglio identificato. Insomma, un gran bel da fare, al quale si va ad aggiungere l’elemento claustrale, su e attraverso il quale il film genera atmosfere ansiogene che potrebbero provocare, come accaduto ad esempio con The Descent, dei mancamenti d’aria a chi soffre gli spazi chiusi e stretti, gli stessi nei quali la macchina da presa del cineasta francese e l’agilissima interprete Gaia Weiss (grande performance fisica prima che recitativa) riescono a divincolarsi con abilità trovando efficaci soluzioni visive e atletiche.
Sono questi gli elementi sui quali punta Meander e che permettono alla timeline di mantenersi a galla, nonostante le incongruenze, i passaggi a vuoto, le forzature e le debolezze strutturali che depotenzializzano e fanno perdere quota al risultato finale. Esito che sin dall’inizio appare fin troppo evocativo, tanto che nella mente del fruitore si materializzano una serie di operazioni analoghe che fanno del sadico gioco al massacro del gatto con il topo, consumato all’interno di una topografia scatologica letale (da Saw a Cube, da Escape Room a Buried, passando per Il buco e Mamba), il baricentro narrativo, drammaturgico e formale. Il che fa perdere interesse nei confronti di un prodotto che sembra inseguire, durante tutto il tempo a sua disposizione, quella virgola, quel cavillo e quella situazione altra, in grado di differenziarlo da ciò che di simile è apparso sul grande schermo in precedenza. Peccato che quello che ha trovato non sia sufficiente a dare una spinta decisa al plot.

Francesco Del Grosso

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