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Matrix Resurrections

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VOTO: 6.5

Di nuovo Bullet Time!

A distanza di oltre vent’anni è possibile affermare con ragionevole certezza che Matrix fu un film capace di intercettare – e di conseguenza “caratterizzare” – uno specifico momento storico. Correva l’anno 1999. Fine millennio. Timori, poi dimostratisi assai fondati, nei confronti di un futuro sino ad allora vagheggiato unicamente in opere di finzione. E, quasi d’improvviso, arrivato ad essere presente, accompagnato da un senso di smarrimento. Per una realtà sempre più condizionata dalla tecnologia, con tanto di timori inconfessabili per il cosiddetto Millennium Bug a dimostrarlo.
Matrix delle sorelle Wachowski (al tempo ancora fratelli, prima della transizione sessuale operata in seguito da entrambe) ebbe il grande merito di filosofeggiare sul destino di passività della natura umana, spettacolarizzando oltre qualsiasi limiti conosciuto l’azione di un universo virtuale radicato esclusivamente nella mente del singolo individuo. Un film dunque seminale, nella sua capacità d’ibridazione. Al quale si sono succeduti due sequel – realizzati in pratica “back to back” nel 2003 – in grado di aggiungere qualcosa di nuovo esclusivamente sul versante dell’apparato formale della saga. Mentre, sul piano puramente riflessivo, altre opere cinematografiche come ad esempio il magnifico eXistenZ di David Cronenberg (ancora realizzato nel 1999, non certo a caso), lanciavano un grido d’allarme definitivo sulla confusione indotta tra realtà effettiva e virtualità ludica. C’era dunque davvero necessità di tornare nella Tana del Bianconiglio per aggiornare una saga ormai divenuta ampiamente maggiorenne con insito il rischio di essere “passata di moda”? Questo Matrix Resurrections, diretto dalla sola Lana Wachowski ma perfettamente in linea con in cinema precedente della coppia, a proprio modo fornisce una risposta senza possibilità di appello.
Un incipit suggestivo riesce a catturare da subito l’attenzione della platea. Tutto cambia, in fondo per non cambiare. Dimensioni differenti, con annessi personaggi, si susseguono a mo’ di scatole cinesi, secondo una peculiarità tipica del marchio Wachowski. Dove alligna dunque la Realtà Assoluta? Forse nella routine quotidiana che vede Thomas Anderson (Keanu Reeves) genio del videogame in crisi esistenziale che incontra in un bar una certa Tiffany (Carrie Ann Moss) avendo la sensazione di conoscerla già. O forse no.
Meglio non addentrarsi nei meandri della trama di Matrix Resurrections, ma restare fissi sull’illusorietà suprema dell’immagine. Un’immagine che, come sempre nel cinema made in Wachowski, rappresenta tutto ed il suo contrario, ingannevole più di ogni altra cosa sin dai tempi del loro lungometraggio d’esordio, il noir atipico Bound – Torbido inganno (1996). Un’immagine che è, in ogni suo singolo fotogramma, evocazione verso qualcosa d’altro, sia nell’ambito del film stesso che nel cinema passato e futuro. Discettare di modernità non ha più senso, se non si aggiungono un numero vertiginoso di prefissi post a piacimento dello spettatore.
Matrix Resurrections, inutile negarlo, trova il suo evidente punto debole proprio nell’impossibilità “fisiologica” di rinnovare il proprio apparato action da un punto di vista formale. Nel 2021 lo sguardo spettatoriale non può che essere saturo di ralenties esasperati, combattimenti corpo a corpo in stile kung-fu, materiale visivo predigerito. L’ultima escursione nel mondo di Matrix semplifica tutto oltre ogni misura, anche quando intende costruire pretenziosi castelli in aria a livello narrativo. Non resta allora che rifugiarsi nel sentimentalismo più spinto, per sopravvivere in un mondo ostile. Cosa che fanno, parimenti al film, i redivivi Trinity e Neo, attraverso alcune sequenze magistralmente orchestrate da Lana Wachowski sul crepuscolo di un’opera di certo sfarzosa, ma che non può trovare, a differenza del capostipite, una sua precisa collocazione nel mondo al di là dello schermo, quello vessato da un’eterna pandemia sia fisica che mentale.
Matrix Resurrections è un oggetto cinematografico talmente fuori tempo massimo da suscitare tenerezza e un filo di commozione in coloro che riusciranno ad ammirarlo con purezza di sguardo. Venti anni trascorsi sono decisamente troppi anche solo per pensare di ridisegnare i contorni di un possibile futuro che, nel frattempo, è già stato fagocitato dal tempo spietato, quello che trasforma ogni cosa in polveroso passato. Senza riguardi o distinzioni di sorta, come sempre accade. Matrix, con la sua molteplicità di universi partoriti  stavolta senza misticismo, è già storia antica.

Daniele De Angelis

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