Il regista russo si racconta al pubblico del Festival del Cinema Europeo di Lecce 2019
Riavvolgendo le lancette dell’orologio ora che il sipario è calato, non c’è dubbio sul fatto che tra i momenti più alti del 20° Festival del Cinema Europeo di Lecce vi sia la masterclass tenuta da Aleksandr Sokurov lo scorso 11 aprile. In una sala gremita della Multisala Massimo, il pluridecorato cineasta russo, uno dei più prestigiosi autori della scena cinematografica mondiale, ha incontrato il pubblico della kermesse salentina, laddove è stato omaggiato con una retrospettiva e dove ha ricevuto dalle mani del direttore artistico Alberto La Monica l’Ulivo d’Oro alla Carriera. In compagnia di Massimo Causo e Aliona Schumakova, Sokurov ha potuto ripercorrere gli highlights salienti del suo percorso professione e lo ha fatto con un flusso di parole attraverso il quale sono emersi temi e stilemi centrali nel suo cinema e una riflessione sul suo modo di fare e concepite l’Arte in generale.
D: Nel suo cinema è sempre centrale la presenza e il ruolo dell’uomo. Un uomo che a volte ha qualcosa di titanico nella sua piccolezza, di fragile nella sua forza o di infinito nella sua finitezza. C’è sempre questa dinamica duplice nelle figure che lei racconta, figure che si muovono in una realtà che sta tra spiritualità, natura e storia. In quarant’anni di carriera dietro la macchina da presa come ha visto mutare questa presenza?
Aleksandr Sokurov: Servirebbe una tesi di dottorato per rispondere a una domanda così profonda e complessa. Per parlare dei valori e delle emozioni bisogna avere un sostegno alle spalle e il mio sostegno è sempre stato l’Europa, non solo quella contemporanea ma anche quella classica, ossia quella che ci ha permesso di diventare ciò che siamo. Da quando faccio il regista il ruolo dell’uomo è cambiato naturalmente, ma soprattutto da un punto di vista caratteriale. Sin dall’alba dei tempi l’uomo è nato con un carattere e le sue azioni sono state condizionate da esso. Nonostante il trascorrere del tempo però il carattere e il suo forgiarsi restano un mistero ed è questo mistero che mi attrae e che provo a raccontare nei miei film. L’enigma resta lo stesso indipendentemente se si parla di un uomo potente o di un uomo comune. L’Imperatore può punire crudelmente un suddito come un contadino può punire allo stesso modo il proprio cavallo. Non vi è alcuna differenza nella punizione inflitta perché la natura che li accomuna è la stessa e non vi è niente di divino. Molto spesso le grandi decisioni sono la dimostrazione del carattere e non dell’intelletto o della ragione. Il più delle volte il caos politico e storico è un segno della natura spaventevole e spaventosa dell’ingovernabilità del carattere. Quando si elegge un Presidente bisognerebbe scegliere anche in base al suo carattere, ma invece viene messo sempre in secondo piano. Più in alto si arrampica la persona sulla scala del potere, più in giù scendono le sue qualità umane, perché chiunque salga sul trono viene consumato e divorato dalla Società. Ogni potente altro non è che lo specchio in cui si riflettono milioni di volti e alla fine costui non sarà più in grado di riconoscere se stesso. L’intensità della vita delle persone che hanno un grande potere tra le loro mani è disumana. Non possiamo nemmeno immaginare in quale buco nero venga risucchiato e come l’essenza della sua anima venga inquinata.
D: Lei una volta ha detto che l’Arte è potente, mentre l’uomo è fragile; quanto questo incide nella realtà e nel processo della Storia in generale?
A.S.: Io penso che il genio e il male in realtà siano ben compatibili. Il diavolo è assolutamente e indubbiamente geniale perché è ovunque, sa tutto e vede tutto. Conosce la profondità della vita umana e anche quella della sua caduta. Quindi sperare che l’Arte possa portare la persona al di fuori della condizione di difficoltà è assai complesso.
D: Una cosa che si percepisce guardando molte delle sue opere, da Madre e figlio a quelle che vanno a comporre la trilogia sul Potere, è questa sua attenzione per un’immagine che si attacca prevalentemente alla superficie degli spazi e non al volume per trovare la profondità. Come riesce a a dare origine al contempo a un processo fotografico che si fa teorico e viceversa?
A.S.: Il cinema ha una dimensione fisica con lo schermo che è una superficie geometrica e tutto ciò che il regista crea viene proiettata su di essa. Ma lo stesso discorso lo si può fare anche per la pittura ad esempio. La storia di quest’ultima è stata caratterizzata da un percorso di sviluppo straordinario iniziato con un minuscolo granello di sabbia per arrivare ai grandi capolavori che noi tutti conosciamo. Questo per dire che è molto importante capire da chi imparare, scegliendo quali sono i maestri giusti. Il cinema dal canto suo, invece, non può trovare da sé la propria via di sviluppo e non è in grado di criticare se stesso dall’interno. Quindi ogni cineasta deve onestamente rendersi conto che ha a che fare con una superficie e con tutte le possibili variabili. Nella pittura i risultati eccellenti sono stati raggiunti proprio su una superficie. Per provare a eguagliare gli stessi risultati, un regista deve accettare il confronto con lo schermo e non combatterlo, ma accettarlo come un dato di fatto. Quindi bisogna accettare l’idea che il cinema è un’arte che si estende sulla superficie e nessun gioco di volume in questo caso può essere accettabile. Piuttosto bisogna imparare a raggiungere il risultato ottenuto da Rembrandt nell’equilibrio tra chiaro e scuro. Per quanto mi riguarda sono stato fortunato a lavorare con un professionista più unico che raro come Bruno Delbonnel, che oltre ad essere un eccellente direttore della fotografia è anche laureato in filosofia all’Università La Sorbona. Il che non lo rende una mosca bianca tra i direttori della fotografia, bensì una mosca d’oro.
D: Quanto l’elemento sonoro è importante nel suo processo creativo?
A.S.: Nel mio cinema il sinfonismo inteso non dal punto di vista musicale ma da quello di unire i suoni in un corpus unico è un elemento determinante. Ciò deriva dal fatto che a differenza di molti colleghi ho trascorso la mia gioventù a studiare Mozart e altri grandi compositori del XX° e XXI° secolo. Questo mi ha permesso di arrivare a certi risultati. Un grande rimpianto che ho è quello di non avere potuto trasmettere tutto questo nella scuola di regia dove sono stato chiamato a insegnare per motivi di tempo, ma anche a causa dell’assenza negli studenti del corso di una cultura di base. Se si vuole guarire da una malattia non bisogna concentrarsi solo sull’organo in questione ma sull’intero corpo che lo ospita. Il cinema funziona allo stesso modo: non concentrarsi sul singolo aspetto ma sull’insieme. Io ho sempre pensato che la parte dell’immagine nel mio cinema rappresenta le gambe mentre quella del suono l’anima.
D: Quale mestiere avrebbe fatto se non si fosse dedicato alla regia?
A.S.: Ultimamente penso spesso di smettere di fare il cinema, perché sono stanco e perché ciò che vorrei fare veramente non si può fare. Una parte delle immagini e degli argomenti che vorrei esprimere attraverso il linguaggio cinematografico è inaffrontabile in Europa e nel resto del mondo. Mi farebbero letteralmente a pezzi. Ma se dovessi ricominciare tutto da capo e scegliere un altro mestiere forse avrei fatto medicina oppure mi sarei iscritto a ingegneria spaziale.
D: Circola la voce che stia lavorando ad un nuovo progetto dal titolo provvisorio La risata tra le lacrime e che si stia dedicando al reperimento di materiali d’archivio su Hitler, Mussolini, Stalin e Churchill. Cosa ci può anticipare in merito?
A.S.: Per questo progetto del quale firmerò la sceneggiatura e la regia, che è ad oggi è ancora in una fase embrionale, con i miei collaboratori abbiamo fatto e continuiamo tuttora a fare ricerche di materiali di repertorio in tutto il mondo, compresi negli archivi qui in Italia. Per la precisione stiamo cercando di realizzare un film che proverà a spiegare a noi comuni mortali i motivi che hanno portato allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Ma ci tengo a precisare che non stiamo cercando materiali inediti o segreti, perché il progetto non intende andare a scavare nelle tombe alla ricerca di chissà quale verità ancora non rivelata. Quello che vogliamo provare a fare è capire cosa sia accaduto attraverso il racconto dei semplici rapporti umani. Cercheremo di fare vedere come alla base di alcuni eventi disastrosi possono esserci spesso i caratteri delle persone che ne sono i principali responsabili. È un progetto che richiederà una lunga gestazione perché si tratta di un lavoro assai complesso dal punto di vista dei contenuti e della forma artistica che ho scelto di adoperare per dipingere i ritratti dei personaggi coinvolti nelle circostanze più insolite e nei momenti meno noti, ma rivelatori della loro natura umana.
Francesco Del Grosso