Inno alla libertà
Ci vuole maestria per rendere merito all’immagine che si ha del (buon) cinema francese e Xavier Giannoli ci riesce benissimo in Marguerite, presentato in Concorso alla 72esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (dal 17 settembre nelle nostre sale). Eravamo già rimasti piacevolmente colpiti nel 2012 da Superstar (in cui il Kad Mérad di Giù dal Nord offriva un’altra ottima interpretazione) e con quest’ultima pellicola ci sembra che venga compiuto un ulteriore passo, oltre a risultarci maggiormente riuscita. Potrebbero apparire l’una il proseguimento dell’altra e si potrebbe fare un gioco alla ricerca delle affinità tra le due nell’ottica di un percorso dei protagonisti alla ricerca della propria identità, ma è lo stesso Giannoli a precisare che non voleva assolutamente replicarsi. Alla nostra protagonista (a cui dà voce, corpo e volto in modo sublime Catherine Frot) non interessa la celebrità, c’è qualcosa di più profondo che le è a cuore che il film ci mostra e trasmette in quel modo così raffinato e ben calibrato nei registri che solo la diretta visione potrà farvi comprendere fino in fondo. È proprio questo equilibrio a essere uno dei punti di forza dell’opera. Lo hanno affermato i più grandi comici esistiti e viventi: è più difficile far ridere (di gusto), qui “Marguerite” – inteso sia come film sia riferito al nome della nostra madame Dumont – ci riesce, toccando anche forti note di commozione senza mai risultare stucchevole.
Marguerite è ispirato alla storia vera di Florence Foster Jenkins, soprano americano divenuta famosa per il suo essere stonata. Ci teniamo ad esplicitare che, però, non si tratta di un biopic su di lei (a quello ci sta pensando Stephen Frears con la Streep e Grant), ma è come se quella storia abbia dato il là per un viaggio mentale e creativo al regista francese, il quale nel tempo, ha esperito questa storia facendo fare a noi questo tour sospesi come dei funamboli sul filo che delimita l’immaginazione e la realtà. Il tutto grazie alla Settima Arte e al suo saperla maneggiare, forte di un cast ottimo e di una sceneggiatura ben costruita. Un primo dato che contribuisce senz’altro alla riuscita è l’ambientazione nella Francia degli Anni ’20, sin dai primi fotogrammi si respira l’atmosfera, è come fare un viaggio a ritroso nel tempo e al contempo influenzati (positivamente) dal nostro immaginario su quell’epoca. Tutto è perfettamente al suo posto, forse l’unica che non lo è, è proprio la nostra Marguerite: ha un amore incondizionato per la musica, desidera imparare a cantare e investe la sua ricchezza e tutta se stessa per farlo, non è intonata, eppure lei crede di esserlo, ma, come vi anticipavamo, non fa tutto questo per diventare famosa come potrebbe sembrare. Cerca l’attenzione di un altro e, parallelamente, nella sua foga di amare, scopre se stessa, ricomincia ad assaporare la vita grazie a personaggi come Lucien Beaumont (Sylvain Dieuaide) il giornalista che scrive una critica sulla sua esibizione riconoscendole «una verità umana che lacera il cuore». Nella prima esibizione in cui la donna ci “delizia” col suo bel canto, si possono assaporare già alcune intuizioni registiche, come la sottolineatura della piuma di pavone (strappata poco prima) mentre canta un’aria in cui sembrerebbe proprio che stesse facendo il verso dell’animale. Poi, man mano che la storia si dipana, capiamo che quella via, in realtà, vuole significare come gli altri vedono lei, come se si pavoneggiasse, ma Marguerite scava proprio in profondità, creando diversi livelli di lettura, facendo emergere l’inconscio della protagonista grazie a un solo sguardo – qui c’è la potenza interpretativa dell’attrice de La cuoca del Presidente (2012). Ecco, questo film di Giannoli riesce a cavalcare le sfumature dell’opera senza farle mai apparire obsolete, toccando punte da melodramma controbilanciate dall’humour tipicamente francese (e difficilmente imitabile). Come se fossero degli atti di un lavoro pucciniano o di tanti maestri che la Dumont insegue, Giannoli, con la co-sceneggiatrice Marcia Romano, pensa il film in capitoli, che sono delle finestre sulla vita di Marguerite e, allo stesso tempo, delle tappe verso la conoscenza. Una figura centrale in questo film è quella del marito (a cui André Marcon restituisce interrogativi in maniera sofisticata, quasi silenziosa). Un altro elemento che ci preme sottolineare è la commedia umana di artisti che abita questo film, è come se il regista voglia creare un continuo gioco tra la maschera indossata nella vita, la commedia che si recita nella realtà e quella sul palco.
Lo sguardo di Marguerite porta con sé una solitudine tutta da indagare e che, fotogramma dopo fotogramma, si svela. Il marito in più momenti (si) chiede: «perché ha bisogno di farlo?». Noi non vogliamo darvi una risposta a questo, per farvi gustare la scoperta con la visione vista la capacità di quest’opera di toccare le corde degli spettatori, far divertire e intenerire entrando in una forte empatia con madame Dumont. Varie scene vi resteranno impresse, ma molto dense sono il finale (che giunge come un cerchio che si chiude) e la scena al Circolo Anarchico dove per la prima volta Marguerite si esibirà di fronte a un pubblico vero e proprio e non davanti agli amici aristocratici. «È il pubblico che fa vivere la musica, senza il pubblico niente esiste, è lui che rende vivo», lo stesso vale per il cinema perciò, ancora con le note de La Marsigliese nelle orecchie, non possiamo che invitarvi a far vivere questo lungometraggio, gustandovelo, facendovi trasportare in un mondo nuovo, viaggiando anche grazie a quelle foto da diva così devotamente scattate dal suo maggiordomo che tanto ricorda il Max di Sunset Boulevard, ma qui i significati son diversi e non vogliamo depistarvi.
Maria Lucia Tangorra