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Marguerite e Julien

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VOTO: 4.5

Storie d’amore senza tempo      

Valérie Donzelli, gioia e dolore del cinema francese contemporaneo. Una giovane regista che, malgrado la breve carriera, ha già avuto modo di far parlare parecchio di sé, sollevando spesso reazioni contrastanti da parte della critica e del pubblico. La sua cinematografia, infatti, si è spesso e volentieri rivelata piuttosto discontinua. Dopo il grande successo di La guerra è dichiarata, a quanto pare i suoi ultimi lungometraggi hanno lasciato parecchio a desiderare. Fino ad arrivare al suo ultimo lavoro, Marguerite e Julien – La leggenda degli amanti impossibili, che, seppur presentando aspetti decisamente interessanti, non può certo dirsi un lungometraggio perfettamente riuscito. Ma procediamo per gradi.
Marguerite e Julien sono due fratelli appartenenti ad una famiglia benestante, che, fin da bambini, sono sempre stati molto legati. Questo legame si rafforzerà nel corso degli anni, al punto di trasformarsi in una vera e propria passione. Ovviamente, la cosa susciterà un enorme scandalo e, malgrado le nozze di Marguerite con l’unico uomo disposto a sposarla in seguito alle voci diffusesi, la storia tra i due giovani sembrerà divenire di giorno in giorno sempre più solida, al punto di portare i ragazzi ad organizzare una fuga per poter vivere il loro amore senza doversi più nascondere.
Interessanti le origini di questo ultimo lavoro della Donzelli. Si pensi al fatto che la sceneggiatura stessa – ispirata a fatti realmente accaduti – è stata scritta nel 1973 da Jean Gruault per François Truffaut, il quale, però, si rifiutò di metterla in scena – forse per la scabrosità dell’argomento trattato o, forse, per la sua problematica ambientazione in epoca medievale. Però, a quanto pare, l’involontaria influenza che Truffaut stesso ha avuto sulla realizzazione del lungometraggio è pericolosamente evidente. Al di là di particolari scelte registiche (prima fra tutte, la frequente presenza di iridi alla truffautiana maniera), al di là dell’adozione di una voce narrante – in questo caso una ragazza ospite di un orfanotrofio che racconta la storia dei due fratelli alle sue compagne di stanza – il tentativo che qui viene fatto è quello – più e più volte adottato dal grande cineasta nouvellevaguista – di mettere in scena un tema drammatico dandogli dei toni delicati e, per quanto possibile, “leggeri”. Ovviamente, questa scelta presuppone una notevole sensibilità, oltre ad una totale conoscenza del mezzo cinematografico. E se è Truffaut stesso a compiere questa operazione, andiamo quasi sul sicuro. Lo stesso non si può dire di Valérie Donzelli, la quale, malgrado le buone intenzioni, inciampa spesso in soluzioni poco felici, che vedono una notevole discontinuità di registro, oltre a numerose forzature che poco legano con il resto della sceneggiatura. Quasi come se il film girato non fosse completamente suo.
E volendo parlare proprio della sceneggiatura – qui riscritta dalla stessa Donzelli insieme all’interprete Jérémie Elkaïm – anche in questo ambito troviamo non pochi buchi, come, ad esempio, ellissi temporali poco giustificate – ad esempio quando i due giovani scappano insieme a cavallo e, senza motivo alcuno, si ritrovano dopo pochi minuti a scappare a piedi, nascondendosi dalle guardie, oppure quando Marguerite, dopo essere stata bandita da casa dei suoi genitori, si ritrova tranquillamente a dormire nel proprio letto dopo aver lasciato la casa di suo marito – oltre a momenti drammatici in cui è stata calcata la mano al punto da scatenare anche qualche risatina involontaria.
Detto ciò, questo ultimo lavoro della Donzelli presenta anche scelte piuttosto interessanti: la scelta di creare un’ambientazione variegata – con elementi che rimandano sia al Medioevo che all’epoca contemporanea – ad esempio, è uno degli aspetti più riusciti ed interessanti di tutto il film. E, infine, non dimentichiamo le immagini finali: astratte, oniriche, con una voce narrante che recita una poesia di Walt Whitman. Una soluzione che dimostra che, malgrado i numerosi scivoloni, forse la Donzelli un certo talento ce l’ha. Basterebbe solo maturare un altro po’, al punto di aver ben certa la strada da percorrere, ed evitare che i grandi maestri del passato esercitino un’influenza troppo marcata sulla lavorazione dei suoi film. Con queste premesse, non ci resta che sperare in suoi nuovi, interessanti lavori.

Marina Pavido

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