Come (r)esistere…
Esistono film che scavano nel profondo di te stesso piano piano, fotogramma dopo fotogramma, prendendoti per mano in un viaggio che non può non farti sentire coinvolto. Questo è accaduto con Marche ou crève, presentato in concorso alla 36esima edizione del Torino Film Festival.
Nella vita, anche di tutti i giorni e fuor di retorica, un mantra sembra accompagnarci: lotta o soccombi (come ci suggerisce il titolo, che può assumere un altro significato, ma non vogliamo rivelarvi una scena chiave). Questo vale, forse, ancor più per chi è affetto da disabilità perché (a seconda del livello) può non essere padrone di se stesso e anche per chi gli ruota attorno.
La prima scena di questo film è – non a caso – una scalata. A posteriori diversi momenti assumono un significato metaforico strettamente connesso, nel particolare alla storia, e più in generale all’esistenza. Elisa (Diane Rouxel) è un’adolescente che buca lo schermo con i suoi occhi verdi e il sorriso carico di vitalità. «Mi mancherà tutto questo», asserisce, guardando dalla vetta rocciosa verso giù. Quella dovrebbe essere, infatti, la sua ultima estate nella casa di famiglia del Vercors, nel Sudovest della Francia, prima di andare a vivere da sola. Poco dopo scopriamo che ad andarsene, rompendo il (precario) equilibrio familiare è stata la madre (Agathe Dronne), impossibilitata ancora a reggere, dopo vent’anni, la situazione della figlia disabile; ma non solo. Il lungometraggio diretto da Margaux Bonhomme, infatti, riesce a far non solo vedere, ma letteralmente toccare con mano i mutamenti in ogni componente del nucleo. La donna, oltre a essere una madre, è una moglie e patisce la trascuratezza del suo compagno (uno straordinario Cédric Kahn, abile nel trasmettere la cocciutaggine di un padre nel non voler lasciare andare, provando a sostituirsi a tutto e tutti), completamente concentrato su Manon. Non si può non fare un plauso a colei che interpreta quest’ultima, Jeanne Cohendy, così realistica a tal punto da non pensare che stia recitando (emette gemiti, china il capo ondeggiando, fino a procurarsi delle autolesioni durante le crisi, ma ha anche un suo modo di ballare). La sceneggiatura ci mostra ogni comportamento con una veridicità che spiazza, forte di chi ha provato sulla propria pelle certe situazioni e, al contempo, le tratta con la giusta distanza. Manon sembra una bambina indifesa (tra le altre cose si calma e addormenta in macchina), ma allo stesso tempo ha delle reazioni improvvise e indecifrabili.
Di giorno in giorno i problemi fisici e mentali della sorella maggiore diventano un peso che sembrano tappare le ali anche ad Elisa (e questo senso di claustrofobia crescente viene evidenziato pure dalla scelta del formato 4/3). Tutti coloro che ruotano attorno a Manon sembrano essere risucchiati in una spirale da cui non è semplice uscire senza farsi schiacciare dal senso di colpa. La macchina da presa cattura ogni attimo con discrezione, da quelli più amorevoli in cui la sorella cerca, ad esempio, di renderla autonoma nel versarsi da bere nel bicchiere o la accarezza sul letto a quelli in cui non è semplice calmarla. È emblematico che lo spettatore si ritrovi ad assistere a una scena simile (che preferiamo non descrivervi, ma connessa alla seconda accezione del titolo) a distanza di alcuni minuti, constatando perfettamente il mutamento emotivo di Elisa, con l’attrice che in una manciata di secondi, con uno sguardo, comunica i pensieri più duri e inconfessabili.
«C’è una forte componente autobiografica in questo progetto, anche se penso che le esperienze raccontate abbiano un valore universale. La disabilità di Manon pone l’accento sulle relazioni individuali fra i personaggi e genera quesiti più ampi sull’importanza di queste relazioni, sulla colpa, la gelosia, la separazione. Non possiamo non amare i nostri parenti, ma a quale prezzo? È questa la domanda che si pone Elisa nel corso del film», ha dichiarato la regista parigina, che proprio in virtù di questo non epura nulla, compresi quei quesiti difficili da dire e dirsi ad alta voce.
Marche ou crève mostra con lucidità e tatto come di fronte a una simile situazione di disabilità ci si possa ritrovare tutti a perdere il controllo di se stessi, dalle piccole azioni quotidiane alle prospettive future (non mancano i riferimenti alle reazioni degli altri e ai supporti sociali). Se c’è una via di uscita contemplabile per (r)esistere e per tutti ve lo lasciamo scoprire durante la visione, augurandoci che questo lavoro possa esser presto distribuito nelle nostre sale.
Maria Lucia Tangorra