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Manny

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VOTO: 5

Un assistente insistente

Nel programma del 20° River to River Florence Indian Festival c’è stato spazio anche per quelle opere girate al di fuori dei confini nazionali, ma che hanno mantenuto comunque un rapporto più o meno stretto con l’India, come nel caso di Manny. La pellicola diretta da Dace Puce è infatti una co-produzione indiano-lettone, che ha come protagonista l’astro nascente della cinematografia di Bollywood, Sonal Sehgal, qui impegnata anche nelle vesti di sceneggiatrice.
Il suo duplice contributo alla causa, per quanto ci riguarda, si rivela la croce e la delizia del film: se da una parte la performance attoriale rappresenta una delle note positive, dall’altra la scrittura che porta la sua firma è senza dubbio il tallone d’Achille. Come accade nei match di boxe, anche se qui di pugni non se ne tirano, la vittoria e la sconfitta viene decretata ai punti quando nessuna delle due parti finisce al tappeto. Purtroppo in Manny il peso negativo di uno script debole drammaturgicamente, privo di originalità nel racconto, nelle sue evoluzioni e nel modo in cui si approccia a un tema complesso come quello dei rischi che possono insorgere nel rapporto tra l’essere umano e una qualsiasi forma di intelligenza artificiale, si fa sentire, decretando un blackout generale. Un blackout che finisce per vanificare quello che di buono la Puce aveva dimostrato di riuscire a fare con il lavoro dietro la macchina da presa, con una regia sicura e puntuale nel trovare soluzioni visive adatte alle situazioni. La storia ci insegna però che se le fondamenta non sono sufficientemente resistenti e affidabili, allora quello che c’è costruito sopra, indipendente dalla presenza di elementi di pregio, finisce prima o poi per crollare. La stessa cosa vale per un film quando la sceneggiatura non si dimostra abbastanza valida e solida da sostenere l’intera architettura.
Il film racconta il viaggio di una scrittrice indiana che si reca in Lettonia per un ritiro finalizzato alla stesura del suo romanzo autobiografico. La sua vita si svolge attraverso tre interessi d’amore: uno reale, uno frutto della sua immaginazione e il terzo virtuale: uomo, donna e intelligenza artificiale. Interessi che nel rispettivo manifestarsi finiscono inevitabilmente con l’entrare in rotta di collisione, scaraventando la protagonista in un incubo ad occhi aperti quando la protagonista viene intrappolata in casa dall’intelligenza artificiale, in questo caso un’applicazione che funge da assistente personale decisamente invadente e possessiva. Le mura della lussuosa villa alle porte di Riga messa a disposizione da una sua facoltosa ex-compagna di studi in America si trasformano ben presto in una prigione di vetro, ferro e cemento dalla quale è impossibile evadere. Ci riuscirà? Alla visione il compito di svelarlo.
Quello che si consuma tra quelle mura diventa la materia prima di un thriller psicologico piuttosto prevedibile, che come se non bastasse si prende in carico di altri temi piuttosto rilevanti (l’accettazione della propria identità e le difficoltà dei legami sentimentali), affrontati anch’essi in maniera sterile e distaccata. Manny mostra gli effetti collaterali di quando si oltrepassa il limite, con la macchina che prende il sopravvento sull’umano, limitandone la libertà personale e mettendone in pericolo la vita. Effetti, questi, che Stanley Kubrick con il suo 2001: Odissea nello spazio ha nel lontano 1968 mostrato con tutta la carica distruttiva e le implicazioni che si portano dietro. Ovviamente lungi da noi fare qualsiasi confronto con il capolavoro del cineasta britannico, poiché si tratta di qualcosa di inarrivabile. Ma è necessario avere le spalle forti per caricarsi sulle spalle certi pesi e chi ha scritto la sceneggiatura di Manny ha dimostrato di non averne a sufficienza.

Francesco Del Grosso

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