Contro Potere
C’è sempre un altro film da raccontare. Persino dietro un quintessenziale capolavoro come Quarto potere (1941) di Orson Welles, perfettamente attuale anche a distanza di ottant’anni dalla sua realizzazione. Del tutto consapevole di ciò, un autore del calibro di David Fincher – utilizzando uno script vergato da suo padre Jack Fincher, scomparso nel 2003 – aggiunge un altro tassello ad una filmografia registica composta di personaggi irrisolti da un punto di vista esistenziale, artefici di un ineluttabile sommovimento dello status quo per il quale loro stessi risultano i primi a pagare dazio.
Siamo al tramonto degli anni trenta, ritratto in un bianco e nero smagliante che accentua la vena meta-cinematografica del film di Fincher. Un lungometraggio che s’intitola Mank, soprannome dal sapore vagamente vezzeggiativo di Herman Mankiewicz, fratello maggiore del più noto regista Joseph L. Mankiewicz. A Herman si rivolge l’allora enfant prodige Orson Welles, il quale gli affida la prima stesura della sceneggiatura di quello che diventerà poi quel pilastro della Storia della Settima Arte rispondente appunto al titolo di Quarto potere. Vincoli contrattuali ferrei, almeno secondo la versione storia veicolata da Mank: Mankiewicz non dovrà comparire nei crediti di un’opera il cui unico artefice dovrà risultare ufficialmente Welles stesso. Inizia un conflitto inevitabile. Una lotta senza quartiere che vede coinvolto il protagonista, un intellettuale che cerca di preservare qualche traccia di un’integrità morale destinata all’oblio in un ambiente hollywoodiano dove regnano istanze esclusivamente di valenza economica, alle prese inoltre con i propri demoni personali, dipendenza dall’alcool in primo luogo. Mankiewicz è un outsider, un perdente di successo tipico di molte altre pellicole fincheriane come The Game (1997) o Il curioso caso di Benjamin Button (2008) solo per citare un paio di esempi. Un uomo che, dall’alto della propria capacità intellettuale, si illude di poter dominare un mondo rispondente a ben altre sollecitazioni. Ritrovandosi così accerchiato dalla forma più estrema di capitalismo opposta ad uno sterile socialismo – qui rappresentato dalla figura immanente dello scrittore Upton Sinclair, autore del romanzo da cui Paul Thomas Anderson ha tratto il magnifico Il petroliere (2007) nonché candidato sconfitto per il Partito Democratico alle elezioni per la carica di governatore della California in quegli anni – privo di qualsiasi possibilità di radicamento e affermazione.
E tuttavia Mank non è un film politico, nel senso di opera militante che sposa senza se o ma una specifica causa, tutt’altro. Rientra piuttosto nella categoria dei lungometraggi tipo Zodiac (2007) o ancor meglio The Social Network (2010), perfettamente aderenti alla poetica fincheriana di osservazione antropologica di una fauna simil-ittica imprigionata in una sorta di acquario simbolico che altro non è se non una continua coazione a ripetere. Una recita a soggetto che vede il magnate William Randolph Hearst – figura che, come noto, ispirerà la penna di Mankiewicz nella descrizione del protagonista di Quarto potere – recitare un ruolo di primissimo piano. Anche per questo Mank affabula con la forza di dialoghi pregnanti, piuttosto che con il fluire dinamico dell’azione tanto caro a Fincher. Rappresentando così un unicum abbastanza atipico nella filmografia del suo autore, il cui unico difetto risiede proprio nella scontatezza di certi simbolismi, come il parallelismo tra Mankiewicz e Don Chisciotte (da lui stesso evocato) nella significativa sequenza della cena in maschera nella magione di Hearst. Piccoli nei di sceneggiatura (che David Fincher si sia sentito in dovere di ripagare una specie di debito morale nei confronti del genitore?) ampiamente riscattati da pregi evidentissimi, come ad esempio la performance recitativa di un Gary Oldman (nella parte, ovviamente, di Mank) transitato, con lo scorrere dei decenni, da giovane talento ad autentico monumento all’arte attoriale.
Se la bestia pandemica che ci affligge da troppo tempo sarà finalmente ammansita e le nostre vite torneranno ad avere una parvenza di normalità anche con la riapertura delle sale cinematografiche, il fatto che Mank possa essere visibile nel luogo deputato oltre che sulla piattaforma Netflix potrebbe rappresentare un nuovo inizio decisamente beneaugurante. Staremo a vedere.
Daniele De Angelis