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Mad Fate

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VOTO: 9

Il ponte sul fiume di guai

Making Waves – Navigators of Hong Kong Cinema: questa la cornice che al 25° Far East Film Festival ha ospitato alcuni titoli, inerenti alla cinematografia da cui tutto ha avuto inizio, qui a Udine. Una simile sottolineatura non intendiamo però dedicarla soltanto all’amore che proviamo, più o meno da sempre, per la produzione cinematografica hongkonghese. Vogliamo infatti estendere la dedica a uno degli autori che negli anni si sono maggiormente distinti, all’interno di tale sistema: il vulcanico, eccentrico, spesso sorprendente Soi Cheang.
All’inizio erano stati i suoi horror a spiazzarci piacevolmente. Horror Hotline… Big Head Monster (2001), soprattutto. Ma anche il successivo, terrificante New Blood (2002). Negli anni seguenti lo abbiamo visto cimentarsi con generi differenti, riconducibili perlopiù al fantastico, al variegato universo del brivido. E difatti soprattutto nel thriller la sua vena creativa ha trovato terreno fertile. Andando a investigare, ogni tanto, anche determinate implicazioni sociali e culturali, utili a inquadrare meglio una realtà particolare come quella di Hong Kong. Non è certo un caso che proprio questo suo thriller dalle venature allucinate e grottesche rientri tra i titoli da cui ci sono arrivate le suggestioni più forti all’ultima edizione del festival friulano.

Tra libero arbitrio e accettazione, dal sapore fatalistico, del responso di un pittoresco ma preparatissimo medium. Ecco lo spazio semantico e filosofico, entro il quale si muovono i personaggi di Mad Fate. A partire proprio dall’indovino, introdotto in scena come il Maestro ed interpretato da quel Lam Ka-tung, che anche in Limbo aveva un ruolo importante e può essere comunque considerato un attore-feticcio, rispetto alla filmografia di Soi Cheang.
Quel continuo oscillare tra la rassegnazione di fronte alle sue più infauste preminizioni o divinazioni e il tentativo di ribaltare un destino iniquo, violento, rappresenta il tema più accattivante del film, esplorato peraltro attraverso una vasta gamma di linguaggi e di stili. L’agire del Maestro finisce per intrecciarsi, il più delle volte in modo beffardo, con quello di altri personaggi. Un sadico e incorreggibile serial killer. Le giovani prostitute che costui ha preso di mira. Un poliziotto dai modi nervosi che di fronte alla catena di efferati delitti continua a brancolare nel buio. E soprattutto lui, Siu Tung, un giovane squilibrato predisposto sin da ragazzo alla violenza, che diventerà man mano il fulcro del racconto: da un lato quell’accentuato disagio psichico che potrebbe spingerlo ad emulare le gesta dell’omicida seriale, dall’altro gli sforzi dell’indovino volti ad assicurargli un futuro diverso, migliore. Eccellente anche la scelta di tale interprete, quel Lok Man Yeung dalle esperienze assai intense sia in ambito cinematografico che musicale (con la boy band Mirror, per inciso), le cui movenze serpentine e a scatti unite in lui a lineamenti per niente ordinari assicurano una fisicità inconfondibile al personaggio.

La sulfurea ironia che si sprigiona dal plot e certe trovate di regia, non ultima la ri-contestualizzazione di un brano celebre come la Marcia del Colonnello Bogey, indimenticabile tormentone associato da qualunque cinefilo alla colonna sonora de Il ponte sul fiume Kwai, finiscono per trasformare Mad Fate in uno dei lungometraggi più stranianti, geniali e antropologicamente feroci, tra quelli visti quest’anno a Udine, sebbene non manchi poi nell’epilogo una parziale ma significativa catarsi.

Stefano Coccia

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